mercoledì 31 ottobre 2018

carta da pane (reloaded)

Data originaria martedì 18 settembre 2012 
(titolo originario "carta da pane 1")

Capita che un oggetto di uso quotidiano ci meravigli, quando lo ritroviamo in una veste inconsueta o in un uso del tutto inaspettato. Capita soprattutto se lo ritroviamo davanti a noi, a rappresentare qualcosa di più elevato, trasformato in qualcosa di meno materiale. 
Ho incontrato per due volte la carta del pane. Quella delle buste dove, da studente mattiniero del lunedì, alloggiavano temporaneamente un paio di tartarughe del panificio Ballarini di Viale Dante. Il lunedì mattina alle otto potevi respirare il profumo dei forni in piena città, proprio come adesso, che non sono più studente, mi piace sentire l'odore dell'erba appena falciata, della terra appena bagnata, o l'aroma del lentischio o del ginepro, mentre torno da Stintino nelle sere più calde. Quando penso alla carta delle buste del pane, riesco a sentire ancora oggi quella sensazione che mi procurava il pane ancora tiepido, portato a casa sulle scale larghe della Signora Girau. Eppure, i miei ricordi più appassionati della carta a grana grossa, con il colore del legno di betulla, sono altri. Restano distinti nel tempo. Quello che sta più in superficie è il ricordo di un piccolo viaggio, fatto in compagnia di Joyce. Anzi, come spesso è accaduto, di un piccolo e brevissimo viaggio fatto al suo seguito. La carta delle buste del pane è il segno impresso nella mia memoria di quella gita. Ho ancora davanti agli occhi l'immagine, incredibile, di centinaia di piccoli pezzi di quella carta color nocciola. Piccoli. Accuratamente ritagliati a mano, in ancora più piccoli rettangoli irregolari. Disposti per terra in mucchietti, alla base di un gigantesco ginepro. Protetti dal sole della spiaggia d'oro, nell'ombra dei rami tagliati con cura, per dare forma a un rifugio. E altre centinaia di altri piccoli pezzi di carta nocciola, infilati in mezzo ai rami del ginepro secolare. Arrotolati come piccoli sigari cubani, ma vuoti dentro.  No. Non vuoti.  Ma ripieni.  Stracolmi di qualcosa che ancora oggi mi sorprende. Bastava prendere uno qualunque di quei cigarillos, per trovarsi senza respiro, anche dopo quella salita ripida. Bastava srotolare quel piccolo rettangolo di carta per il pane, per trovare all'interno la conferma di quello che lei mi aveva raccontato per settimane, seduta sul suo letto senza doghe. Ogni piccolo foglio, una volta aperto, rivelava, senza mai deludere, il suo piccolo ripieno di vita. Era il ricordo di poche righe, lasciato scritto da una biro o da una matita, di chi era già passato in quel luogo e aveva già fatto ciò che gli si chiedeva. Erano i pensieri di chi aveva seguito l'invito, scritto su quel cartello all'entrata, infilato nella terra argillosa, su cui poggiava le radici il grande ginepro. "Siate benvenuti alla casa del poeta. I vostri sentimenti siano i frutti che germogliano nella casa-albero". 
Sono passato altre volte a trovare la casa del poeta. Ci sono sempre passato come si va a fare visita a un amico dell'adolescenza. Ogni volta ho lasciato altri miei pensieri. Fino a quando ho capito che non avrebbe voluto che io la vedessi, mentre invecchiava troppo in fretta. Credo che si consumasse, chiedendosi perchè il suo vecchio poeta non venisse più a curarsi di lei. Forse perchè le case e i ginepri sono come i bambini. Pensano che il sonno duri solo una notte.

(disponibile anche sul blog "cinque anni sull'altipiano")





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