A due anni di distanza, forse non tutti ricordano cosa era successo. Fate mente locale. E poi rileggete. Spero vi possa piacere
mercoledì 20 novembre 2013
con la "a" maiuscola
Io l'ho vista l'acqua. Avevo cinque anni. E mia zia, che ora è l'ombra di sé stessa, che stava lì accanto a me. La guardava anche lei. Immobile nella sua ossuta secchezza. La mano stretta sulla mia. A impedirmi neppure mezzo passo, delle mie scarpe nuove, di vernice nera. Come se soltanto a guardarlo, quel mare color nocciola, avesse potuto trascinarmi via. Io l'ho vista l'acqua, dopo la messa della domenica. Incurante di ogni preghiera. Senza rispetto per il giorno del Signore. Silenziosa come un temporale raccontato a chi non c'era. Lenta come lo scorrere del tempo. E come il tempo, incapace di fermarsi o tornare indietro. È così che la ricordo. Mentre curiosamente, ogni cosa della piazza sembrava abbassarsi. Mentre solo lei restava uguale. Sempre alla stessa altezza. Come se un invisibile e magico falegname, segasse le gambe del tavolo, per farlo più basso. Per aiutare mia nonna a stendere meglio l'impasto del pane fine. Così, si abbassava il vecchio municipio, con la lapide in marmo dei caduti in guerra. Il consorzio agrario, di fronte al vecchio pozzo. L'ufficio postale, di fianco al negozio di generi alimentari della signora Antonia. Persino il bar di Giovanni, da cui vedevo uscire, galleggiando, le cassette di legno della birra Ichnusa. E il grande muro dell'argine, che si piegava morbidamente, come fanno i nastrini, quando si infiocchettano i pacchi regalo.
Era un'acqua di altri tempi. Arrivava di giorno. Arrivava con calma. Ti dava il tempo di capire cosa fare e dove andare a ripararti, senza fretta. Portava via solo oggetti inanimati. Al più, teneva per sé i cari ricordi di qualcuno. Regali di nozze. Tappeti di lana ereditati dal bisnonno. L'ultima foto del proprio marito, disperso nella guerra d'Africa. Vecchi mobili rattoppati. O ciarpame, dall'enorma valore affettivo, conservato in un angolo, per quando mai fosse servito. Ma buono da dare in pasto all'alluvione.
La chiamavano così. Anzi, ancora oggi la chiamano così. Come fosse un nome proprio di persona. Come fosse un vecchio emigrato, che ogni tanto potrebbe tornare a visitare il paese, per vedere se tutto è come l'aveva lasciato l'ultima volta. La chiamano così, rifiutando persino, di usare l'articolo indeterminativo. Distinguendo persino le epoche paesane: prima e dopo di essa. E magari, con la "A" maiuscola.
"L'Alluvione".
Era un'acqua di altri tempi. Arrivava di giorno. Arrivava con calma. Ti dava il tempo di capire cosa fare e dove andare a ripararti, senza fretta. Portava via solo oggetti inanimati. Al più, teneva per sé i cari ricordi di qualcuno. Regali di nozze. Tappeti di lana ereditati dal bisnonno. L'ultima foto del proprio marito, disperso nella guerra d'Africa. Vecchi mobili rattoppati. O ciarpame, dall'enorma valore affettivo, conservato in un angolo, per quando mai fosse servito. Ma buono da dare in pasto all'alluvione.
La chiamavano così. Anzi, ancora oggi la chiamano così. Come fosse un nome proprio di persona. Come fosse un vecchio emigrato, che ogni tanto potrebbe tornare a visitare il paese, per vedere se tutto è come l'aveva lasciato l'ultima volta. La chiamano così, rifiutando persino, di usare l'articolo indeterminativo. Distinguendo persino le epoche paesane: prima e dopo di essa. E magari, con la "A" maiuscola.
"L'Alluvione".