giovedì 10 dicembre 2015

con la "a" maiuscola (replica del 2013)

A due anni di distanza, forse non tutti ricordano cosa era successo. Fate mente locale. E poi rileggete. Spero vi possa piacere




mercoledì 20 novembre 2013

con la "a" maiuscola

Io l'ho vista l'acqua. Avevo cinque anni. E mia zia, che ora è l'ombra di sé stessa, che stava lì accanto a me. La guardava anche lei. Immobile nella sua ossuta secchezza. La mano stretta sulla mia. A impedirmi neppure mezzo passo, delle mie scarpe nuove, di vernice nera. Come se soltanto a guardarlo, quel mare color nocciola, avesse potuto trascinarmi via. Io l'ho vista l'acqua, dopo la messa della domenica. Incurante di ogni preghiera. Senza rispetto per il giorno del Signore. Silenziosa come un temporale raccontato a chi non c'era. Lenta come lo scorrere del tempo. E come il tempo, incapace di fermarsi o tornare indietro. È così che la ricordo. Mentre curiosamente, ogni cosa della piazza sembrava abbassarsi. Mentre solo lei restava uguale. Sempre alla stessa altezza. Come se un invisibile e magico falegname, segasse le gambe del tavolo, per farlo più basso. Per aiutare mia nonna a stendere meglio l'impasto del pane fine. Così, si abbassava il vecchio  municipio, con la lapide in marmo dei caduti in guerra. Il consorzio agrario, di fronte al vecchio pozzo. L'ufficio postale, di fianco al negozio di generi alimentari della signora Antonia. Persino il bar di Giovanni, da cui vedevo uscire, galleggiando, le cassette di legno della birra Ichnusa.  E il grande muro dell'argine, che si piegava morbidamente, come fanno i nastrini, quando si infiocchettano i pacchi regalo.
Era un'acqua di altri tempi. Arrivava di giorno. Arrivava con calma. Ti dava il tempo di capire cosa fare e dove andare a ripararti, senza fretta. Portava via solo oggetti inanimati. Al più, teneva per sé i cari ricordi di qualcuno. Regali di nozze. Tappeti di lana ereditati dal bisnonno. L'ultima foto del proprio marito, disperso nella guerra d'Africa. Vecchi mobili rattoppati. O ciarpame, dall'enorma valore affettivo, conservato in un angolo, per quando mai fosse servito. Ma buono da dare in pasto all'alluvione.
La chiamavano così. Anzi, ancora oggi la chiamano così. Come fosse un nome proprio di persona. Come fosse un vecchio emigrato, che ogni tanto potrebbe tornare a visitare il paese, per vedere se tutto è come l'aveva lasciato l'ultima volta. La chiamano così, rifiutando persino, di usare l'articolo indeterminativo. Distinguendo persino le epoche paesane: prima e dopo di essa. E magari, con la "A" maiuscola.
"L'Alluvione".
Sono una persona molto fortunata: la vita mi permette persino l'imbarazzo della scelta.


(lo so, lo so...è da molto che non metto i miei testi sul blog...)

venerdì 18 settembre 2015

vita



 
In altri tempi, quando si doveva spiegare a un bambino il mistero della Vita che diventa altro, occorreva sedersi davanti a lui, tenendone le mani.
Gli si raccontava di quei momenti in cui le persone, trascinate lungo la vita da passioni, sentimenti, errori, arrivavano esauste al luogo in cui ogni forza era consunta, come un colletto inamidato rigirato troppe volte. Giunto nelle mani della Signora, che sino a quel giorno, ogni volta aveva trovato il modo di riprendere, rabberciare, ricucirne il bordo. Ma che quella volta, con sguardo pietoso, lo restituiva. Non per gettarlo via, ma con la preghiera di farne buon uso, inventandone una nuova vita. Magari non indosso, ma in un cassetto a cui ricorrere per le necessità della casa.
Ho pensato a questo, mentre viaggiavo sulla strada del ritorno a casa, guardando le campagne dalle vetrate di un pullman, come da studente.
L'ho pensato perché lui non era esausto. Non lo era mai stato, neppure da giovane. E sono sicuro che anche stavolta, come sempre, ha deciso lui.


 

nero





Qualcuno dovrebbe iniziare a dirlo. Qualcuno dovrebbe iniziare a raccontarlo. Di quella grande costruzione emersa nel punto in qui sparisce la nebbia della pianura. Confine tra i possedimenti di Lord Piercy e le paludi delle zanzare. Tra le ultime chiudende del marghine e i resti che furono dei vescovi sterminati dalla malaria.
Mio fratello ritiene che a nessuno, ormai, possa interessare la storia di quella stazione. Che non ci siano più, le anime libere disposte a sentire l'emozione di quella signora magra e alta. Che ci sia in giro alcuno capace di ascoltare le sensazioni di un ragazzino
Mio fratello più piccolo crede che nessuno voglia conoscere chi sia stata e cosa sia ora, quella donna vestita di nero.
Si, perché da noi, ogni mistero è vestito di nero. Ogni storia che si nasconde dietro a una sconosciuta, dev'essere una storia che non può avere altro colore, se non quello del lutto. Al più, talvolta, si può aggiungere il rosso vinoso del sangue dei Miserabili. Raramente quello più vivo dei nobili decaduti, delle maestrine romantiche o del generale Lutzu.
Eppure ci sarà un motivo se per lui, quella stazione a scartamento ridotto, oggi non è fatta di binari, né di vecchi vagoni di legno pitturato trenta volte di grigio. Ci sarà un insegnamento, come dice la mia maestra di San Vero, se fra tutti i ricordi di ragazzzino, lui racconta di quella signora alta. Alta come lo sono tutte le donne, agli occhi di un dodicenne. Forte, come lo sono tutte le donne agli occhi dei cinquantenni. Lui, di quella stazione, cerca inutilmente l'unica cosa che sa di non trovare. Muri scoloriti e intonaci scrostati. Doppie porte scardinate e senza neppure più voglia di cigolare. Ogni cosa è ancora al suo posto. Come i soliti vecchi delle piazzette di paese. Che trovi al solito posto, soltanto più decrepiti. Lui cerca inutilmente quel telefono, inchiodato al muro della porta del capostazione. Troppo in alto per un dodicenne.
E anche se non lo ammette, penserà che è un vero peccato non trovarlo ancora appeso. Adesso che ha l'altezza giusta, per guardare da vicino e toccare quel telefono. Nero. Come gli abiti della signora che aspettava i treni.
Scomparso anche lui, senza avere potuto far sentire la sua voce. Senza avere raccontato quella storia.




 

perso





È una giornata importante. Vestito bene. Pantaloni blu, maglietta rossa con scarpe abbinate. Non mi devo sporcare il vestito nuovo. Non devo giocare con la terra. Devo stare attento a non cadere.
Non sono stato bravo. Non ho mantenuto la promessa. Ma non sento le urla di mia madre, ora che sono sporco di sabbia, bagnato fradicio fin dentro i miei piccoli polmoni. Ora che sono riverso addormentato sulla spiaggia di fine estate. Perso

io & io


Credo che sia così. Ci passi davanti, con un paio di scarpe vecchie, magari di una misura più grande. Con indosso una camicia dai polsini e dal colletto consumati. Pantaloni con l'orlo grattato via dallo strisciare per terra. Davanti al piccolo negozio, pieno di quei dolci che hai sempre sognato. Come nei racconti di Dickinson. Lì vedi e stai lì a guardaré, anche sapendo che non sono tuoi. E gli spiccioli del taschino, non bastano. Credo che sia così, oggi.
 
 
La lista della spesa di oggi: "Passare da brico e comprare un kit". Per farmene una ragione.
 
 

Mi faccio una foto con il telefono. Ci metto sotto una scritta: "scomparso". La guardo con attenzione per non perderne alcun dettaglio. Poi uscirò a cercarmi.
 
 
Ecco, oggi un vicepreside in pensione, mi ha spiegato un pezzo di vita. La differenza tra essere primi della classe ed essere seduti al primo banco. Non è la stessa cosa, in effetti.
 

Ecco. Ci sono cascato. Ho messo un paio di cuffiette auricolari. Ho piazzato il telefono sulla scrivania, poggiato sulla tastiera del pc. E con i gomiti sul tavolo, tengo la testa poggiata sulle nocche delle mani. Guardando Nek, mentre canta la mia canzone preferita, scritta da Maurizio Costanzo. Non pensavo che Maurizio Costanzo sapesse tutte queste cose. E non sapevo che due auricolari neri, conoscessero così tante cose di me. E così che ci casco. Sempre. Spero che Nek non rida troppo di ne.


Come sa bene, chi mi conosce da tempo, un paio di volte l'anno rinuncio alle mie originali scemenze e riporto qualcosa che non è mio. Ma che avrei voluto tantissimo avere scritto io stesso.
Oggi spetta a Piergiorgio Paterlini.
"Il valore del tempo; la bellezza impagabile della vicinanza a qualcuno nel lungo scorrere del tempo, molto più importante, molto più umana, molto più "famiglia" di qualunque fedeltà moralistica, svilita a ruolo di pura monogamia sessuale"

 
  
A me, i sogni restano attaccati, vividi.
Come la colla densa e bianca che usavano i vecchi falegnami.
 
 
Due pensieri di ferragosto, postumi.
1) Vedo tutti quelli che si fanno le foto con il cellulare. In un futuro remoto, gli archeologi di altre galassie, vedendo gli antichi documenti fotografici, si chiederanno se la nostra civiltà si sia estinta a seguito di una misteriosa epidemia, che produceva una paresi del volto, con un'abominevole espressione facciale, ben visibile nel loro viso.
2) Guardo il tg di ferragosto. Ma oggi, le giornaliste che conducono i telegiornali, se non sono enfisematose, non le vogliono?



Credevo di essere capace di fare una semplice operazione, per conoscere la mia età. Poi mi sono scoperto a sbirciare continuamente un piccolo cerchietto sul telefono. Le notifiche di whats app.
 



A volte la vita è strana. È come se, avendo gareggiato dando tutto te stesso, fossi arrivato primo. Poi ti informano che ti sei scordato di iscriverti e quindi non hai diritto a salire sul podio.
 
 
Questo vento così caldo, soffia così forte su ogni cosa. Come se volesse prosciugare ogni goccia d'acqua. Evaporare ogni lacrima caduta al suolo. Indifferente che sia di dolore o di gioia.
Forse è per questo che le donne del deserto, si coprono il capo, lasciando intravvedere gli occhi nel'ombra.


Ci sono persone che ci emozionano quando ci sono accanto.
Altre, invece, capaci di farlo quando ancora le aspettiamo.



"Le parole sono cose vive. Pesanti. Che ti possono spaccare la vita." (Roberto Vecchioni. due minuti fa)(un giorno d'agosto)
 

amore & alcool (entrambi rovinano i neuroni)

 
Ora che iniziano le scuole, mi capita di vedere ragazzini che scelgono i quaderni. Righe e quadretti, ma soprattutto le copertine, che mi fanno ricordare quelle dei quaderni della seconda media. Quelle di astronomia, che parlavano di altri mondi lontani. Mondi così lontani e diversi dal nostro. Dove il tempo non corrisponde a quello della terra. Dove un minuto vale un'intera giornata. Un pomeriggio corrisponde a una stagione. Dove un bacio sembra non finire mai. Forse, quei quaderni avevano ragione.
 
 
I nostri ragazzi crescono, guardando alla tv storie in cui all'inizio, gli uomini dicono sempre alle donne "ho capito che avrei perso, dal primo momento che ti ho visto". Alla fine le donne dicono "non posso".
E così i ragazzi immaginano il loro futuro. Preferibilmente senza donne.
 
 
Stamattina, fate una cosa ben fatta. Aprite il cassetto. Spalancate lo sportello. Tirate fuori la scatola di cartone. Rovistate accuratamente fino in fondo. Scegliete un amore. Non importa che sia vecchio, consunto, passato, consumato. sperato, desiderato, mai arrivato, o che sia ora e adesso. Tiratelo fuori, spolverandolo, se necessario. Ma portatelo con voi, oggi. Fategli vedere il vostro mondo. E voi, guardate la vostra vita con i suoi occhi.
 
 
Ti sente, ma non ti ascolta. Ti parla, ma non è con te che sta parlando. Non è uno degli enigmi della Sfinge. È soltanto un pensiero. Che occupa ogni spazio. Vicino o lontano che sia.
 
 
Ci sono amori che finiscono quando ci si accorge che lei è bellissima.
 
 
 
Dovrei dedicarmi a cio' che è importante. Come, per esempio, ritrovare i segni del tuo amore.
 

Continuo ad amarla. Perché nasconderlo? Fingere un distacco, una freddezza, che sono pallida imitazione del suo tiepido gelo. Questo è il mio vero dolore. Profondo.


Talvolta si desidera un corpo e si cerca a chi appartenga. Io lo desidero, perché so a chi appartiene.
 
 
A chi ti trova semplicemente bella, tu rispondi che sei normale. Allora, io non ti troverò bella. Neppure normale. Ti troverò. Semplicemente
 
 
A volte, ci si trova a seguire la flessuosita' di un corpo. Altre volte, invece, ci si perde a seguire le flessuosita di un cervello. Incontrare entrambe queste cose, significa perdersi e ritrovarsi continuamente.
 
 

Lo specialista mi ha prescritto delle minuscole compresse. Da dividere con cura amorevole in due pezzi. "È un farmaco nonsocchenergico", mi ha detto.
Sarà... Eppure mentre ti parlo, guardandoti, giorno dopo giorno, mi convinco sempre di più che quelle pastigliette, in realtà, siano un filtro d'amore. Sbadato.
 
 

Classificazioni.
Ci sono storie che sembrano non avere fine. Sono le storie senza una coda. Altre, sono storie di cui non riusciamo a capire dove siano iniziate. Sono le storie senza capo. Poi ci sono storie che non hanno un esatto principio e di cui non c'è mai fine. Storie senza capo né coda.


Chissà come cominciano quelle storie dei film.
Chissà come fanno a diventare così complicate, così forti e piene di passione.
 
 
Gino Marielli sa fare bene il suo mestiere: "Duos ojos che resolzas lughentes".


viaggiatori viaggianti

 
 
 
Dicono che i soldati feriti in battaglia, a cui amputavano le gambe, continuassero a sentirle, come se le avessero ancora. Lamentandosi persino del dolore all'arto che non c'era più.
Io ricordo che da ragazzino, rientrando la sera dal mare, stavo accucciato sul sedile posteriore di similpelle blu della Fiat 128. Tenevo il finestrino abbassato, ma non del tutto. Lasciavo aperta solo la parte superiore, giusto all'altezza della fronte e mi mettevo vicino al bordo, per sentire l'aria fortissima dei settanta chilometri orari. Prima che le curve e i tornanti della valle di Marreri, ci facessero boccheggiare a 15 all'ora. Era bellissimo sentire l'aria scontrarsi fortissima con il mio viso e spingere all'indietro i ciuffi dei miei capelli. Come se qualcuno li tirasse con ardore.
Stasera, complice il condizionatore scarico della 159 di Daniele, sono riuscito a rifarlo. Ed è stato bellissimo. Esattamente come allora. Ed è stato come per quei soldati. Ho sentito i miei capelli tirati all'indietro, sulla pelle strofinata dal vento caldo.  Proprio come fossero ancora lì.
 

Vorrei chiedere al mio amico che guida, di andare più piano. Di rallentare, proprio qui, dove la strada diventa più larga. Dove tutto, di giorno, appare completamente diverso da una sera d'inverno.

 
Vasco Rossi alle otto del mattino.
Una vita spericolata sulla vecchia strada statale Macomer-Nuoro.
Una vita in cui ognuno è perso dietro i fatti suoi.
Una vita niente Roxy, ma molto Iffurcau.
Una vita piena di guai.  Purché possiamo sceglierceli prima.
 

Passeggero della vita. Comodamente seduto sul sedile posteriore.  Il vantaggio di vedere i miei compagni di viaggio. Di osservarli nel profondo dei loro particolari, senza essere visto.  Di stare da solo quando mi va.  Di non preoccuparmi della strada che ho davanti.  Tranquillo, nel piegare il capo, per guardare ciò che agli autisti è proibito da sempre: la campagna che scorre di lato.  Libero di pensarti e di scriverti, senza essere interrotto da incroci, cartelli, camion ingombranti, cantieri imprevisti.  Prima o poi tornerò a guidare e non sarò più passeggero della vita. Però, adesso, lasciatemi guardare il cielo dal tettuccio trasparente.
 
 

mercoledì 1 luglio 2015

algida








Quelle ali che ruotano, lente, placide, indifferenti ai miei pensieri. Che se le guardo da vicino, sono persone. E penso che tu non sarai mai una di quelle ali piegate dal vento.












I fotografi  dicono che la luce del pomeriggio è sempre la migliore, perché possiede la giusta angolazione per dare forma e profondità ad ogni cosa. Permettendo di rendere evidente ai nostri occhi, ogni più piccolo particolare. A patto che ne abbiamo la sensibilità.
L'ho immaginata così, stasera, la nostra vita. L'ho immaginata seduta placida su uno sgabello, come a disegnare e dipingere una tela. E noi a guardare i suoi segni, i suoi tratti.  Semplici e confusi all'inizio, tali da indurci nel piacevole errore. Da illuderci di intravvedere e presagire l'opera che verrà fuori. Da farci ipotizzare e dedurre ciò che sarà. Ma portandoci, con ogni pennellata aggiunta, a rivedere e cambiare la nostra scommessa su ciò che sarà. Costringendoci a mutare il nostro futuro, istante per istante. Ammettendo, mano a mano, che non sarà mai il disegno che abbiamo ideato all'inizio. Eppure sorprendendoci, come l'amico d'improvviso ritrovato, all'angolo di un vecchio muro rabberciato, a passeggio nella città. Come il sorriso ricevuto, anche quando non ricordiamo il nome di chi ce l'ha dato.

 
 
Non so ancora, perché questo stato di malattia mi faccia sentire che sono più "vecchio".  Forse perché io mi faccia in po' da parte. Perché consumi meno ossigeno, usato dai sentimenti. E perchè quell'ossigeno risparmiato, possa così essere usato da mio figlio. Sono più vecchio, forse perché mi ritrovo a guardare un piccolo film di un cornetto Algida e perché mi ritrovo a immaginare che ora sarà lui a sentire l'aria dei sentimenti, che ti svuota felicemente la testa. Sarà lui ad avere gli occhi sgranati quando, senza neppure accorgersene, incrocera' un altro paio di palline colorate. Che siano nere, nocciola, verdi, azzurre, o semplicemente cangianti con il cambio di stagione o con il sole del mare.
Così, mi ritrovo quasi vecchio e quasi saggio. E quasi a fare il tifo per ciò che immagino sarà lui,  saranno i suoi sentimenti, le sue storie, le sue passioni. O forse le mie. Senza fine. Passo a passo. Eterne.







Io misuro il grado di civilta di un luogo, in base al numero di donne alla guida degli autobus.



venere & giove



28.06

A ovest, ci sono Venere e Giove, stasera.  Li guardo, come gemelli luminosi.
E mi chiedo cosa stiano pensando di me. Se sono curiosi di vedere quel puntino luminoso che si muove a novanta chilometri orari. Pentendosi, magari, di non avere un telescopio, per vedermi meglio.


30.06

Lì vedi anche tu, forse. Guardando a ovest, oltre i tetti.
Mi hanno detto che sono Venere e Giove. Finalmente vicini. Almeno all'apparenza.
Vicinissimi per i nostri occhi. Lontanissimi per lo spazio che li separa.
Se te lo chiedo, forse mi dirai che ne vedi uno solo e un altro.
Oppure non te lo chiederò. Aspettando che entrambi spariscano, uno nell'altro.
Vicinissimi e lontanissimi.







Whats App: Quegli apostrofi azzurri, tra le parole "online" e "sta scrivendo".

sabato 20 giugno 2015

Joyce e l'età del quarzo

Una volta il mondo andava a molla.
Una delle rivoluzioni umane, come quella del frigorifero, del treno a vapore, del telaio meccanico, della stampa, fu quella in cui i giapponesi della Casio, fecero passare l'umanità dall'età della molla, all'età del quarzo.
Fu una rivoluzione terribile, dove il ticchettio degli orologi da caricare, fu soppiantato senza pietà dal silenzio dei led. Il calore del movimento meccanico abbandonato, senza riconoscenza, dai minuscoli circuiti integrati. Persino la meraviglia del movimento a diapason, fu costretta in un angolo, senza neppure l'onore delle armi. Sconfitti da un orologio il cui pezzo più costoso era il bracciale. Nessuno riuscì a vincere quella battaglia incruenta. Neppure i soliti stolti romantici, che guardavano con affetto  quei piccoli congegni segnatempo, costruiti apposta per fare discutere in ogni occasione, su quale fosse il più preciso.  Relazioni umane e interi pomeriggi, passati a confrontarsi su quale fosse l'orologio più preciso. Quale fosse quello che accumulava meno ritardo. Sui modi per regolare l'eccessivo anticipo. Confronti spietati nel dimostrare che fosse esatta l'ora indicata nel quadrante. Vite intere passate a capire l'imprecisione del meccanismo, per correggerla quotidianamente. Tutto spazzato via da quel prodigio giapponese, con le scritte inglesi serigrafate sul fondo nero. Time. Mode. Alarm.
Perdonerete questa fumosa e quasi bucolica premessa. L'età della Molla, un po' come l'età dell'Innocenza.
Oggi neppure ci ricordiamo di quell'età. In cui la variabilità dell'ora esatta e la relatività della precisione, erano parte normale del trascorrere del tempo quotidiano. Oggi che il tempo è scandito così bene, che neppure ci rendiamo conto di esso, se non quando è già passato. Oggi che il padrone assoluto delle macchine segnatempo, è proprio il piccolo minuscolo minerale di quarzo. Che, come tutti i vincitori, ha concesso un grazioso dono agli sconfitti, mettendo le lancette, per darci la sensazione del trascorrere del tempo. Come un accessorio vezzoso aggiunto a un vestito elegante, le sveglie di oggi emettono un ticchettio artificiale, spesso non necessario, ma solo per ricordare i vecchi, ormai antichi, orologi a molla. Senza lasciare spazio all'imprecisione. Orari uniformi, come fossero sincronizzati da un Grande Fratello, cugino degli Dei dell'Olimpo, erede e discendente di Chronos.
L'unica fuga da questo Mondo Perfetto, potrà essere la ribellione di Joyce. Che con la scusa di non essere in ritardo, manomette con cura meticolosa, tutti gli orologi della casa. Portando avanti le lancette di alcuni, lasciando invariati gli altri, e trascurando quelli che hanno esaurito la carica delle batterie (che segnano l'ora esatta solo due volte al giorno). Il risultato è che non sai mai, di primo acchitto, quale sia l'ora esatta. Così ha restituito all'umanità quella libertà di ondeggiare attorno al tempo. La libertà di scegliere tra tanti momenti, quale sia quello giusto. Di rinfocolare il rapporto umano e persino le relazioni affettive, quando ognuno può scegliere e preferire l'ora più adatta. Libero ognuno di essere in anticipo o in ritardo. Libero dalla schiavitù del quarzo.

Buon compleanno (io sono nato alle nove, circa).

martedì 24 marzo 2015

parole & cervelli





 
Mi hanno chiesto se mi innamoro facilmente delle persone. No. Mi innamoro facilmente del loro cervello.
 
 
Custodisco tutte le parole bellissime che mi hai dato. Come faceva mia nonna, che conservava le sue medicine, dentro una scatola di latta, del lievito Bertolini. E come lei, quando sto male, apro la scatola e verso la giusta quantità di gocce, per lenire il dolore. Se fai attenzione, puoi sentire il suono delle parole che cadono nel bicchiere. Una ad una.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non vale. Tu porti gli occhiali. E così puoi vedere ogni mia piccola ruga. Ogni imperfezione. Qualunque mio movimento,  impercettibile agli altri. Poi mi correggi. "Non sono gli occhiali", dici.  Si chiama "anima".
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Dicono che la nostra vita è ciò che non abbiamo fatto. Io non so se ho fatto bene o male. Anzi, non so neppure se ho fatto.
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
Forse anche allora, era il giorno dell'equinozio di primavera. Forse anche allora il giornalista era lo stesso. Quel giornalista che, sul telegiornale della Sardegna, chiese alla vecchietta di Bosa, con il soffitto della casa popolare degradato dalle infiltrazioni, cosa facesse quando pioveva.
Di sicuro, oggi che è il giorno dell'equinozio, al tigì fanno un bellissimo servizio sulla giornata del Fondo Italiano dell'Ambiente. Uno dei luoghi che si possono visitare oggi, come nel resto d'Italia, è il vecchio e ormai chiuso, carcere della città di Tempio Pausania. Devo essere sincero: non ci vedo un granchè d'interessante. Neppure quando si vede una targa all'ingresso di una stanza: "sala fitness". Però i ragazzini delle scuole e gli altri visitatori sono entusiasti, quando rispondono alle domande dell'intervistatore. Specie quando si chiede a cosa vorrebbero fosse destinata, in futuro, quella struttura. Ognuno esprime il suo desiderio. Centro creativo o ricreativo, museo, cultura, eccetera....
Ma, soprattutto, come dice una signora simil-bionda, "l'importante è avere una struttura di cui poter usufruire, a cui si possa accedere, in cui si possa entrare facilmente". Ma questo, signora, già c'era. Il problema del carcere di Tempio Pausania, non era entrarci. Quello era facile anche prima. Il difficile, era uscirne.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Io vorrei che l'assessore regionale ai trasporti, fosse come Piero Angela.  Come lo vedevo da ragazzino in tv. L'altro giorno raccontavo di come ricordassi perfettamente le serate in cui lui parlava del mondo futuro e dei telefoni che avremmo potuto usare fuori casa. Ma non di quegli apparecchi a forma di cornetto, elegantemente posati sul tavolino a bordo piscina, dei telefilm americani. No. Lui raccontava cose impossibili. Parlava di persone che avrebbero potuto conversare con i loro parenti o colleghi, mentre si spostavano!  E nel disegno animato, si vedevano tanti tralicci in fila, che passavano un segnale radio, dall'uno all'altro, facendo in modo che la telefonata non si interrompesse. E questi tralicci si sarebbero chiamati "celle".
Oppure, descriveva città fantastiche, in cui gli abitanti venivano guidati da schermi che li avvisavano delle condizioni meteo, del bus in arrivo, degli ingorghi stradali, dei negozi aperti, di eventuali guasti agli impianti, o persino di pericoli. Città in cui la metropolitana, la rete elettrica, l'acquedotto, sarebbero stati controllati, non dall'uomo, ma dalle macchine.
Ecco. Io spero che l'assessore  regionale ai trasporti, sia proprio come Piero Angela. Spero proprio che un giorno, ciò che lui racconta oggi  sul giornale, possa diventare realtà.
Cosi che io, un giorno, possa ricordare di quando per la prima volta, qualcuno disse che si poteva andare in treno, da Cagliari a Sassari,  in due ore.
 
 
 
Qualche giorno fa, raccontavo a una persona, di un mio professore.  Lui diceva che la consistenza così "molliccia" del cervello, quasi semiliquida, era concepita perchè i nostri sogni, vi si poggiassero comodi....
 
 
 
Poi, per esempio, ci sono quelli malinconici:
1) Non mi manca lei. È peggio. Mi manca quella che era lei.
2) Resisto. Non perché penso al passato. Ma perché non smetto di sognare.
 
 
 
 
Non ti guardo negli occhi. Perché non ho segnato la strada che ho fatto per trovarli. E non saprei tornare indietro.

 
 
 

martedì 3 marzo 2015

dalla lettera






















"Caro Gianrico, stiamo abbastanza bene.  A volte ci sentiamo come una confraternita. Ci aiutiamo vicendevolmente, nei momenti di difficoltà. Forse lo facciamo per colmare un vuoto. Un vuoto freddo, fatto di indifferenza, di distacco, talvolta di poca considerazione."

"Mia cara Giacomina. No. Non vedo freddo. Non vedo indifferenza. Non vedo distacco. Non vedo neppure "poca considerazione".
Penso invece, che dovete riuscire a guardare meglio.  A vedere bene, attraverso i vetri appannati dal freddo che vi circonda.
Penso che non avete un vuoto da colmare. Avete invece, un sacco pieno di buon grano. E mentre voi state a cavallo, con le vostre bisacce piene di buon seme, chi sta schiacciato per terra, dalla propria miseria, vede quei semi cadere da qualche strappo della tela.
È davvero diverso,  quello che accade. In realtà è la percezione, a volte inconsapevole, di questi esseri, della propria irrimediabile miseria. Loro urlano da sotto, minacciano, aggrediscono la vostra cavalcatura, azzannandovi talvolta alle caviglie, nel tentativo di farvi cadere.  Eppure, se ci pensi, tutto continua, irrimediabilmente, a dimostrare quanto essi siano lombrichi, su questa terra fertile.
Lombrichi.
Utili.
A fare humus.
Per le nostre coltivazioni dei semi che possediamo.




"Dite che vi manca.  Come può mancarvi, qualcosa che non esiste?"


venerdì 27 febbraio 2015

grimilde & biancaneve

 

Avviso a tutte le matrigne. Fate attenzione. A forza di dare mele avvelenate, prima o poi, mangerete quella sbagliata.........

 
Su quel muro abbastanza bianco e abbastanza lungo, c'era scritto "Oggi è proprio uno di quei giorni in cui vorrei perdermi. Perdermi e basta. Perdermi da solo. Forse persino senza te."
 
 
Sogni. Bellissimi. Che restano  come ombre al nostro fianco, attraversando la luce del giorno. Che attendono il sole basso  della sera. Per tornare luminosi nel buio della notte.
 

Un serpente di lanterne rosse, attaccate alle macchine, incolonnate all'ingresso della città. Proprio mentre mi viene in mente che potrei essere un grande costruttore di storie. Di storie che piacciono a tutti. Capace d'inventarne una che piace ai teneri di cuore,  perché possano palpitare per quelle due fiamme gemelle, che si amano, come loro stessi avrebbero voluto amare. Che piace agli invidiosi, perché possano riversare il loro acre sentimento, su quelle due anime, felici della loro passione. Che piace a chi vive di inganni e falsità, perché riuscira' a passare giornate intere, a immaginare e inventare tutto quello che non si vede. Che piace a chi è vivo, perché la notte riesce a sognare tutto quello che sarà domani. 
 

Come  nella fiaba di Jack, ho trovato i semi magici. Quella pianta cresciuta così velocemente, fino a portarmi così in alto. Un luogo sconosciuto. Mai neppure immaginato. Forse sognato. Oppure altre volte vissuto. Mi sono ritrovato finalmente dove il pensiero sfida il sentimento, nel correre più veloce. Dove anima e cuore continuamente si inseguono, arrivando sempre al medesimo luogo, nel medesimo istante.  Ancora oggi, non ti so dire in quale preciso momento, tutto sia accaduto. So soltanto che la paura insensata di tempeste che non c'erano, arrivo' così rapida, da non lasciare il tempo di un respiro. Mi portò giù,  lungo i  rami scivolosi, fin sotto le radici magiche.  A lasciarmi riemergere sporco e sudicio di terra, come Alice alla fine del sogno.  Con in mano, l'unica cosa che mi era rimasta, dentro una tasca sgualcita. Come un uovo d'oro. Lo stesso che custodisco ancora oggi. E che ogni giorno, nella solitudine della sera, prendo tra le mie mani. Lo stesso che consumo, strofinandolo ogni giorno, mentre lo lucido per i miei occhi. Trovando per lui, ogni giorno, un nome diverso. Sempre lo stesso.



"Non importa, se non ho stravolto le nostre vite."

sabato 7 febbraio 2015

chiuso per inventario



Stavolta, troverete tutto alla rinfusa, quasi senza senso. 
Meglio di niente. Sguazzate tranquilli nelle acque basse.




Incontrarsi,  nel luogo dove i pensieri si incontrano. 
Dove si danno appuntamento, senza neppure bisogno di dirsi il posto e l'ora.




















Pensieri & parole (opere & omissioni)


Una perla di saggezza:   
"Ricordatevi che non si ingrassa da natale a capodanno, ma da capodanno a natale" (featuring Martino)


Due regole del wellness: 
1) Fate attività fisica. Molta. Moltissima. Anche durante il giorno. 
2) Sognate. Vi prego. Sognate molto. Moltissimo. Anche di giorno.


Viaggiare seguendo il movimento del sole, verso la linea dell'orizzonte. Senza capire che così, sarà sempre notte. Senza un'alba. Senza una destinazione. Senza destino.
Per fortuna, non siamo mai abbastanza veloci. E la luce arriva, a illuminare le strade di pianura. Perché se non c'è destino, ci sarà almeno una destinazione.


Nuvole così basse da sembrare montagne, o montagne così alte, da confondersi con le nuvole. Dipende da dove ti trovi.


La vita ha la forma rotonda di una curva sulla strada, all'uscita dalla città. Sarà pure un'illusione, ma è bello vedere che il mondo gira intorno alla tua auto.


Chissà se la Legge della Sincronicità di C.G. Jung, si applica anche ai tergicristalli, che vanno al ritmo di Giorgia. (Solo uno fra tanti)




Dovendo scegliere, tra la poesia delle emozioni e la prosa della realtà, tirate pure la moneta.
Poi riponetela in tasca, senza neppure guardare se sia testa o croce. 
E tirate dritti. Tranquillamente.


Cervelli in fuga. Non sempre vanno all'estero. Il mio, ad esempio, cerca solo un posto dove non essere trovato.


Capisco chi vuole sparire. Non del tutto. Non per sempre. Solo in parte. Solo per un po'. Solo metà. Di uno.




Chissà cosa accade quando il giorno inizia, mentre dall'altra parte del mondo,  ti trovi al centro esatto della notte.  Chissà se i pensieri da svegli, attraversano tutti quei meridiani, come se niente fosse.  Chissà se parlano la stessa lingua dei sogni e ci arrivano dentro, direttamente. E chissà se tutte quelle linee che attraversano lo spazio e il tempo, si chiamano Paralleli,  per tenere vicini i pensieri, le persone, le vite. Senza allontanarsi.






Dicono che la cometa sia lì. Ma io non la trovo.  Non la vedo. Eppure dicono sia vicinissima. Solo un milione di chilometri. Lo so: mi sfiorerà. Esattamente come te.  Ma io non la trovo. Non la vedo.









Auguri di buon natale ("del Natale non si butta via niente").

Un miraggio è fatto così. Rovescio il mondo e mi ritrovo  con le nuvole sotto i miei piedi, a fare finta che sia neve. E sopra di me, i tetti delle case. Con i comignoli da cui cade di tutto. Fuliggine, carboni ardenti, griglie e spiedi. Vecchietti magri, bambini curiosi. E poi sveglie, angioletti di porcellana, ghirlande luccicanti, lumini con le facce paffute di Santa Klaus.
Quel mondo rovesciato, mi fa pensare alle storie Argentine, dove nevica a Ferragosto, mentre a Natale si va al mare.  Mi fa ricordare la mia vecchia enciclopedia del come e del perché,  che spiegava come si creano i miraggi, compresi quelli sull'asfalto rovente.
Ed è così che d'improvviso, da quel pavimento nevoso fatto di nuvole, al posto dei pini e degli alberi di natale, sbucano file intere di palme. E mi ritrovo sul lungomare, come fosse Palm Beach. Non è un miracolo. È un miraggio. Di Natale.







Vorrei dirtelo. Perché  non so disegnare ciò' che non ha forma.



Ciao.  Come va?  Possibile che non trovi  tempo per me?  Firmato: la tua vita.





(Chiamami.  Senza usare alcun telefono)