Bobo e Tanya, erano matricole universitarie. Di quelle matricole come non ne vedi più. Sorridenti e felici. Consapevoli della fortuna di essere studenti universitari. Ho iniziato a frequentare le feste studentesche, solo quando ho conosciuto loro. Mi piaceva trovarmeli in quei ritrovi clandestini, che erano gli appartamenti dei "fuori sede", dopo le dieci di sera. "Fuori sede" era la denominazione degli studenti che, non abitando in città, si trasferivano nella sede universitaria. Li definivano cosi, come oggi chiamano "extracomunitari", tutti quelli che arrivano a cercare un tozzo di pane per lavoro. Noi cercavamo un tozzo di titolo di studio. Bobo e Tanya, erano uno spettacolo da vedere e da sentire. Ti facevano pensare che valeva la pena vivere, in questo mondo, se esistevano abitanti come loro. Riuscivano a fare scivolare via, intere nottate, senza il benchè minimo senso di colpa, per i capitoli non studiati. Nè, tantomeno, per il collega di studio che, il mattino seguente, sarebbe arrivato, puntualmente, alle otto.
Partecipavano a ogni necessità o bisogno. Che fosse un invito a pranzo imprevisto, causa sciopero mensa universitaria, o una crisi coniugale tra fidanzati. Tanya, aveva sempre un modo di ascoltare e spiegare. Senza supponenza, nè spocchia. Neppure quando raccontava di esuli e profughi. Di terremotati e di sfollati. Di distruzioni e ricostruzioni. Di case e famiglie da rimettere in piedi. Tenendo per sè ogni sconfitta. Ogni delusione.
L'università è un villaggio temporaneo, di nomadi che arrivano e ripartono. Noi, come tutti, siamo arrivati e ripartiti.
E' cosi, che ho rivisto Tanya. In un'altra stazione. Dicono sempre che il viso di chi è disteso, in quel giaciglio di legno, sia sereno, perchè ogni sofferenza è cessata. Lei, invece aveva un viso sofferente, come se neppure quello stato, le avesse placato un dolore tanto profondo. O forse, mi sbaglio. Il dolore era proprio in quel distacco. Nel dover lasciare il lavoro incompiuto. Come non avermi insegnato a non piangere per lei.
Partecipavano a ogni necessità o bisogno. Che fosse un invito a pranzo imprevisto, causa sciopero mensa universitaria, o una crisi coniugale tra fidanzati. Tanya, aveva sempre un modo di ascoltare e spiegare. Senza supponenza, nè spocchia. Neppure quando raccontava di esuli e profughi. Di terremotati e di sfollati. Di distruzioni e ricostruzioni. Di case e famiglie da rimettere in piedi. Tenendo per sè ogni sconfitta. Ogni delusione.
L'università è un villaggio temporaneo, di nomadi che arrivano e ripartono. Noi, come tutti, siamo arrivati e ripartiti.
E' cosi, che ho rivisto Tanya. In un'altra stazione. Dicono sempre che il viso di chi è disteso, in quel giaciglio di legno, sia sereno, perchè ogni sofferenza è cessata. Lei, invece aveva un viso sofferente, come se neppure quello stato, le avesse placato un dolore tanto profondo. O forse, mi sbaglio. Il dolore era proprio in quel distacco. Nel dover lasciare il lavoro incompiuto. Come non avermi insegnato a non piangere per lei.
(cesare cremonini, la nuova stella di broadway)
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