Mio zio e mia cugina, senza sapere l'uno dell'altra, mi chiedevano nei giorni scorsi, di scrivere qualcosa del Natale. In realtà, qualcosa di molto "mio", del Natale, l'avevo già scritto, senza preavviso. Ma erano 4 piccole righe. Di quelle che fanno parte del gioco di società, che è questo blog. Un gioco in cui alcuni si possono riconoscere, da piccoli particolari. Stasera ho fatto qualcosa di insolito. Qualcosa che ricorda un pò, i riti d'iniziazione. Quelli che si fanno presso certe tribù primordiali. O per l'ingresso in certi club, associazioni clandestine, sette spiritiche, o robe simili. Sono arrivato ai confini del mio mondo conosciuto. Sono penetrato nel territorio segnalato con il totem rosso e verde del pulcino pio (della tribù degli Auchani). Oggi ha un aspetto reso ancora più tetro, dagli ornamenti luminosi, che sono stati preparati. Mi sono fermato in mezzo alla distesa di auto, spiaggiate come orche marine, quando vengono confuse dall'inquinamento dei mari. Mi sono posteggiato-spiaggiato in quella radura senza piante. Al centro, solo un unico grande albero di ferro. Privo di rami, da sempre. Anch'esso adornato dalle luci votive. Poi ho preso respiro. Ho chiuso gli occhi per un istante. Ho premuto il pulsante del finestrino. E ho atteso che quel mondo attorno, si facesse riconoscere ed entrasse nell'abitacolo.
Uomini tristi, con il capo chino. Calvi senza volerlo. Arrivati in quel luogo, senza averlo mai veramente desiderato. Escono dagli sportelli, lanciando uno sguardo intorno, quasi a controllare lo spazio che li circonda. Come un marito a un appuntamento clandestino. Lanciano il raggio paralizzante, del telecomando immobilizzatore Fiat. Poi prendono il cammino, tristi, capo chino, pugni in tasca. Li posso seguire per pochi metri, prima che spariscano, tra i fili luccicanti, di finto ghiaccio bianco-azzurro. Mi interrompe la giovane madre, che scende a fianco al mio sportello. "Tu non sei bambina da fare uscire di casa!". "Stai qui ferma, che ti devo controllare!". "Fai quello che vuoi, basta che stai immobile e secca!". E' solo un istante di distrazione. Loro sono ancora lì. Uomini tristi, a capo chino, che si muovono a piccoli passi. Come appena fuori da una cella, in direzione delle docce comuni. Quasi tutti, con giubbotti uguali, seguono donne, che sono scese un momento prima di loro. Donne che camminano con un passo che sembra lasciare orme sul cemento. I loro compagni, seguono meticolosi, quasi cercando di poggiare il loro piede su quell'impronta. Sanno forse, ciò che li attende, dentro al simulacro di vita, nel cubo di cemento e ferro. Molti hanno già conosciuto quel luogo, nei tempi passati. Ma loro sono ancora qui. Con un entusiasmo rassegnato. Mi ricordano così tanto, quegli altri uomini, che ho visto ieri. Con i loro piccoli cuccioli. Discutevano. Litigavano. L'ultimo mi è rimasto impresso. Camminava e si rivolgeva al cucciolo. "Devi stare qui!". "Te l'ho detto. Non scendere dal marciapiede!". "Ma non capisci?". Se il cucciolo avesse potuto rispondere, probabilmente avrebbe usato le parole, che mi sono passate in mente il quel momento. "Come faccio a capire? Sono un cagnolino". Anche lui triste, a capo chino.
Uomini tristi, con il capo chino. Calvi senza volerlo. Arrivati in quel luogo, senza averlo mai veramente desiderato. Escono dagli sportelli, lanciando uno sguardo intorno, quasi a controllare lo spazio che li circonda. Come un marito a un appuntamento clandestino. Lanciano il raggio paralizzante, del telecomando immobilizzatore Fiat. Poi prendono il cammino, tristi, capo chino, pugni in tasca. Li posso seguire per pochi metri, prima che spariscano, tra i fili luccicanti, di finto ghiaccio bianco-azzurro. Mi interrompe la giovane madre, che scende a fianco al mio sportello. "Tu non sei bambina da fare uscire di casa!". "Stai qui ferma, che ti devo controllare!". "Fai quello che vuoi, basta che stai immobile e secca!". E' solo un istante di distrazione. Loro sono ancora lì. Uomini tristi, a capo chino, che si muovono a piccoli passi. Come appena fuori da una cella, in direzione delle docce comuni. Quasi tutti, con giubbotti uguali, seguono donne, che sono scese un momento prima di loro. Donne che camminano con un passo che sembra lasciare orme sul cemento. I loro compagni, seguono meticolosi, quasi cercando di poggiare il loro piede su quell'impronta. Sanno forse, ciò che li attende, dentro al simulacro di vita, nel cubo di cemento e ferro. Molti hanno già conosciuto quel luogo, nei tempi passati. Ma loro sono ancora qui. Con un entusiasmo rassegnato. Mi ricordano così tanto, quegli altri uomini, che ho visto ieri. Con i loro piccoli cuccioli. Discutevano. Litigavano. L'ultimo mi è rimasto impresso. Camminava e si rivolgeva al cucciolo. "Devi stare qui!". "Te l'ho detto. Non scendere dal marciapiede!". "Ma non capisci?". Se il cucciolo avesse potuto rispondere, probabilmente avrebbe usato le parole, che mi sono passate in mente il quel momento. "Come faccio a capire? Sono un cagnolino". Anche lui triste, a capo chino.
Nessun commento:
Posta un commento