domenica 30 settembre 2012

i diari della lambretta

Come tutti,   continuo a tenere amorevolmente custoditi, i piccoli episodi di quando avevo più tempo per oziare e svagarmi.  Non ho mai approfondito se il termine svagarsi, abbia o meno una relazione con quello a me più confacente: vagare.  In genere si dice, con un'accezione non propriamente positiva, "sei uno svagato".  Io invece,  penso che vagare per cinque, dieci, venti minuti, o anche per un intero viaggio in treno o in automobile, sia un esercizio molto bello. Certo, bisogna essere predisposti, geneticamente, oltre che psicologicamente.  In questo senso,  credo proprio che "svagati" si nasca.  Un pò come vanitosi, narcisi, impulsivi, precipitosi, eccetera.  Molto spesso, chi possiede questo talento naturale, si trova a vagare, senza neppure averlo programmato o desiderato. Naturalmente, con buona pace della mia collega Neurologa, il mio vagare è strettamente relegato ai pensieri.  Anche se talvolta può accadere di trovarsi a vagare con i pensieri e ritrovarsi a vagare anche fisicamente, per le strade di una città sconosciuta.  Ecco.  Ho divagato.   In realtà volevo scrivere ciò che ho promesso a Gianrico, venerdì sera al bar.  Volevo scrivere del nostro amico Attilio.  Attilio si era diplomato all'Istituto Magistrale.  Oggi si chiama, con la solita gazzosa all'italiana, "Liceo Socio-Pedagogico". Trent'anni fà, sfornava cultura e capacità di trasmetterla. Oggi, dopo il diploma, devi proseguire gli studi universitari, alla facoltà di Scienze dell'Educazione. Quella che, mia nipote chiama, sogghignando "Scienze della Merendine". Ma si sa.  Lei è una carogna.  Niente a che vedere con la tenerezza del ricordo di Attilio.  E dell'anno in cui, per affrontare il concorso nazionale, per l'accesso all'insegnamento, si preparava, come quasi tutti, seguendo lezioni private.  Aveva scelto un collega in pensione, in grado di chiarire i concetti teorici, con l'aiuto dell'esperienza. Si chiamava Maestro Zevola. Suppongo che Zevola fosse il cognome. Ritengo che Maestro fosse il nome di battesimo, visto che non l'ho mai sentito chiamare in modo diverso.  Ho sempre pensato che la scelta del proprio tutor, da parte di Attilio,  non fosse frutto di razionalità, ma di istinto. O se preferite,  come spesso sostengo, del caso.  Sempre il solito Caso.  Quello con la ci maiuscola.  L'ho sempre pensato,  perchè la cosa a cui era più legato, il mio amico carissimo, dopo i genitori, che adorava,  era la vecchia lambretta del padre.  La curava premurosamente, tenendola sempre pulita, con le cromature luccicanti. Girava la Sardegna, alla ricerca dei pezzi di ricambio (internet non c'era). Ossessionava Alessandro, il meccanico, per le riparazioni necessarie. Una Lambretta era anche il mezzo di trasporto del Maestro Zevola. Credo che questa comunanza motoristica, fosse anche il segno di una comunanza culturale e spirituale. I due Lambrettisti, si erano trovati a percorrere assieme un pezzo della strada della vita. Il vecchio Maestro, nel tratto finale, ad accompagnare il giovane Allievo. Ricordo ancora, le pochissime volte in cui era venuto in paese.  Il suono sofferente del motore dello scooter, che cercava di sorreggere il peso del Maestro. Era un uomo di notevole stazza, come spesso erano gli abitanti di Oroseppi. Imponente ancora di più, quando lo vedevi arrivare con un trench grigio scuro, che svolazzava, come il mantello di Batman. Passava il primo minuto a cercare di asciugare il sudore del viso e delle mani, con un fazzoletto ricamato agli angoli.  Il sovrappeso, lo faceva ansimare, anche quando parlava, seduto su una poltroncina della camera da pranzo, in casa di Attilio. Passarono l'intera estate, come gli studenti con la supplente, nei film con Alvaro Vitali. In alcune occasioni, Maestro e Allievo, si organizzavano piccole gite fuoriporta. Escursioni motorizzate, verso luoghi più o meno vicini. Sorrido immaginando che durante il percorso, uno facesse domande all'altro, mentre procedevano affiancati sulle moto.  Alla fine dell'estate, il concorso fu superato brillantemente. Il mio amico diventò maestro elementare ed ebbe il suo primo incarico nel paesino di Belvì. Del Maestro, mi resta vivissimo il ricordo di un particolare, che mi ha ispirato nel citare i diari di una motocicletta molto più famosa. Il basco. Di colore nero, da cui non si separava mai e senza il quale, non prendeva mai la guida della sua lambretta color beige. Il basco. Calcato bene sulla sua grossa testa, ormai senza capelli. E chissà se, in giovane età, lo avesse portato con barba e chioma fluente, immaginando che la strada di ghiaia bianca, che percorreva per andare a scuola, fosse un pezzo di Bolivia.

martedì 18 settembre 2012

carta da pane 1

Capita, che un oggetto di uso quotidiano, ci meravigli,  quando lo ritroviamo in una veste inconsueta, in un uso del tutto inaspettato. Capita soprattutto, se lo ritroviamo davanti a noi, a rappresentare qualcosa di più elevato; a essere trasformato in qualcosa di  meno materiale. Ho incontrato per due volte, la carta del pane. Quella delle buste dove, da studente mattiniero del lunedì, alloggiavano temporaneamente, un paio di tartarughe del panificio Ballarini di Viale Dante. Il lunedi' mattina alle 8, potevi respirare il profumo dei forni in piena città, proprio come, adesso che non sono più studente, mi piace sentire l'odore dell'erba appena falciata, o della terra appena bagnata, o l'aroma del lentischio o del ginepro, mentre torno da Stintino, nelle sere più calde. Quando penso alla carta delle buste del pane, riesco a sentire, ancora oggi, quella sensazione che mi procurava il pane, ancora tiepido, portato a casa,  sulle scale larghe, della Signora Girau. Eppure, i ricordi più appassionati che ho, della carta a grana grossa, con il colore del legno di betulla, sono altri. Distinti nel tempo. Quello che stà più in superficie, è il ricordo di un piccolo viaggio, fatto in compagnia di Joice. Anzi, come spesso è accaduto, di un piccolo, brevissimo viaggio, fatto al suo seguito. La carta delle buste del pane, è il segno impresso nella mia memoria di quella gita. Ho ancora davanti agli occhi, l'immagine, incredibile, di centinai di piccoli pezzi, di quella carta color nocciola. Piccoli. Accuratamente ritagliati a mano, in piccoli rettangoli irregolari. Disposti per terra in piccoli mucchietti, alla base di un gigantesco ginepro. Protetti dal sole della spiaggia d'oro, nell'ombra dei rami, tagliati con cura, per dare forma a un rifugio. E altre centinaia di altri piccoli pezzi di carta nocciola, infilati in mezzo ai rami del ginepro secolare. Arrotolati come piccoli sigari cubani, ma vuoti dentro.  No. Non vuoti.  Ripieni.  Stracolmi di qualcosa, che ancora oggi mi sorprende. Bastava prendere uno qualunque di quei cigarillos, per trovarsi senza respiro, anche dopo quella salita ripida. Bastava srotolare quel piccolo rettangolo di carta per il pane, per trovare all'interno, la conferma di quello che lei mi aveva raccontato per settimane, seduta sul suo letto senza doghe. Ogni piccolo foglio, una volta aperto, rivelava, senza mai deludere, il suo piccolo ripieno di vita. Era il ricordo di poche righe, lasciato scritto da una biro o da una matita, di chi era già passato in quel luogo e aveva già fatto ciò che gli si chiedeva. Erano i pensieri di chi aveva seguito l'invito, scritto su quel cartello, all'entrata, infilato nella terra argillosa, su cui poggiava le radici il grande ginepro. "Siate benvenuti alla casa del poeta. I vostri sentimenti siano i frutti che germogliano nella casa-albero".
Sono passato altre volte a trovare la  casa del poeta. Ci sono sempre passato,  come si va a fare visita a un amico dell'adolescenza. Ogni volta ho lasciato altri miei pensieri. Fino a quando ho capito, che non avrebbe voluto che io la vedessi, mentre invecchiava troppo in fretta. Credo che si consumasse, chiedendosi perchè, il suo vecchio poeta, non venisse più a curarsi di lei. Forse perchè le case e i ginepri, sono come i bambini. Pensano che il sonno duri solo una notte.


lunedì 17 settembre 2012

flash




Credo che se un giorno fossi un fantasma, non resisterei alla tentazione di venirti a trovare. E se fossi uno spirito invisibile, cercherei un modo per parlarti.

venerdì 14 settembre 2012

il sax di fausto papetti

Ho ripreso a viaggiare molto spesso. In realtà viaggio tutti i giorni, come un rappresentante di commercio, ma faccio finta che non sia così. Il piacere del viaggiare, per un'ora, al mattino presto, quasi sempre al buio, viene dal fatto di poter sentire un silenzio che si riempie di suoni. Anche a dieci gradi di temperatura, apro un pò i finestrini, per fare suonare l'aria a centotrenta chilometri orari. Lo so quello che pensate: che la vera ebbrezza della velocità, inizia quando si va a centosessanta. Ma quando si parte al mattino presto, non si ha lo spirito della sfida, come accade invece nei pomeriggi di primavera, quando si possono fare le gare, magari fermandosi al pit-stop, nelle piazzole della superstrada, prima del distributore. Al secondo posto, dei piaceri del viaggiatore quotidiano, c'è sicuramente l'ascolto delle canzonette. Con i tempi moderni, è diventato facile avere una bella playlist, con tutto quello che occorre per passare sessanta minuti, cantando romanticamente a squarciagola. Ma se fate un piccolo sforzo di memoria, ricorderete che ci sono stati tempi, in cui i dischi occorreva comprarli e l'unico modo per avere tutti i successi, in un unico disco (vinile, a 33 giri), era comprare gli album di Fausto Papetti. Fausto... Chi?    Era un signore che, negli anni sessanta e settanta, suonava i successi del momento, con il suo sassofono.  Una tristezza.   Con brani pronti all'uso, per ballare quelli che allora si chiamavano "i lenti". Ballare un lento, era il modo più pratico e apparentemente disinteressato, per stare finalmente appiccicati in due, su un pezzo di pavimento, ondeggiando alternativamente sulle gambe.  Per fortuna, ci fu un momento in cui tutto cambiò. Fu alla fine del 1969. Un furbacchione francese, signore di mezza età, fidanzato con una ragazzina, decise di fare un disco molto impegnativo. Con un testo naturalmente molto impegnativo. E una melodia naturalmente molto...lenta. Ma siccome, il signore si chiamava Serge Gainsbourg (Serge...chi?), il suo disco fu un successone europeo. Niente fu più come prima. Ballare con quel disco diventava un vero oltraggio al pubblico pudore. Come andare in topless alla spiaggia di Giorgino a Cagliari. Perchè invece, a Cala Ginepro, si poteva già fare (ho le prove; una foto, da qualche parte, di una turista, francese, naturellement). Fu cosi, che anche in Italia, iniziò il filone dei dischi di ambiente. C'era un gruppo che si chiamava "Daniel Sentacruz Ensemble", con un brano che si intitolava "Soleado". Si. Proprio quello. Il cui testo era composto da una sola vocale: "o-o-o-oh-o-o-o-o-oh!". Segno dei tempi. Ricordo che proprio "Soleado", fu il nome, evocativo e simbolico allo stesso tempo, che fu dato alla prima sala da ballo del paese. In un anticipo di quello che oggi, si definirebbe glocal (globale e locale), o etno-pop, l'insegna appesa all'ingresso del locale (un garage, scantinato, magazzino, seminterrato), era una vecchia ruota di carro, di legno, pitturata di bianco e con i raggi celesti. Con la scritta dipinta in modo certosino, in corrispondenza dei singoli raggi. In quella sala c'era la rappresentazione del futuro. L'anticipazione della bella vita, che aspettava tutti noi, trascinati dal fiume della petrolchimica, nel gorgo voluttuoso della voce di Jane Birkin. Non ho mai saputo che aspetto avesse questo futuro. Ero troppo piccolo e non mi fecero entrare. E il Soleado, chiuse i battenti prima che io avessi l'età adeguata per poterci mettere piede.