giovedì 22 marzo 2012

il profeta e il filosofo

"Amore e dubbio non si sono mai rivolti la parola"  (Kahlil Gibran)

Non chiedetemi perchè oggi, invece di una storia, ho voluto far leggere queste parole messe in fila. Le ho trovate per un puro caso.  Anche se, non posso certo dimenticare che, una mia amica, dice sempre di ricordare le parole del suo filosofo preferito: Oogway.  "Il caso non esiste".   Io invece, cito spesso un altro filosofo, che mi meraviglia per la sua ruvida saggezza. Anche lui ha pensato al caso, che talvolta sembra governare le nostre vite.  "Il vento gira dove gli pare a lui".  Se non l'avete riconosciuto, procuratevi un'enciclopedia della filosofia e andate alla lettera U.  "U" di Urgu.  Del Caso e delle Coincidenze,  ve ne racconterò un'altra volta.  Se sarà il caso.

sabato 17 marzo 2012

jeans, bretelle & pizze

Guardo i ragazzi che entrano in pizzeria per ordinare. Guardo con attenzione, che spero non venga confusa con altro genere di interesse,  i loro jeans. E mi viene in mente che, da piccolo, non sopportavo molto  l'idea che mia madre mi volesse mettere ''i tiranti''.  Che non erano niente a che vedere con i ponti sullo stretto  o altre opere di ingegneria. Non so perché le chiamassero così.... le bretelle.  Sta di fatto che  l'affettuosa motivazione, che mia madre adduceva, era che ero troppo magro e i miei pantaloni, senza quell'adeguato sostegno, mi sarebbero scesi alle ginocchia, mentre camminavo o giocavo. A quell'età, io ero decisamente meno spudorato di come lo sia adesso, e quindi... accettavo l'aiuto della tecnologia elastica.   Adesso, nell'A.D. 2012,  guardo questi jeans, cosi instabili, cosi' pericolosamente pronti a cadere, seguendo le immutabili leggi della gravità terrestre.  Li guardo, cercando di percepire quell'invisibile punto d'appoggio, quel vero e proprio "punto di non ritorno", oltre il quale potrebbero scendere miseramente, irrimediabilmente, definitivamente, verso le ginocchia dell'occasionale indossatore.   Insomma, voglio dire, che occorre una buona prestanza fisica, per poter tenere i glutei in costante contrattura, al fine di tenere in posizioni cosi' estreme, la cintola del pantalone.  Mentre aspetto 2 pizze patatine e wurstel, riesco persino a immaginare,  che la palestra a fianco di Faby's, organizzi appositi corsi per tonificare i glutei, come si fa per appiattire gli addominali.  E negli ultimi 2 minuti d'attesa, mi ritorna in mente quello che mi ha raccontato la mia amatissima Joyce.  In realtà, la prima volta che i jeans "ribassati", sono apparsi in una sfilata di moda, era in occasione della presentazione di una collezione di CK.  In quell'occasione, come sempre accade, esisteva un argomento a cui il creatore di moda si ispirava.  I jeans portati estremamente in basso sulla vita, erano una provocatoria citazione, di quello che molti, negli Stati Uniti, sanno benissimo.  Nelle carceri statunitensi, esistono, come dappertutto, dei codici di comunicazione non verbale.  Uno di questi,  riguardava la segnalazione ai compagni di detenzione, della propria disponibilità a rapporti di un tipo ben preciso.  Il segnale,  inconfondibile,  era proprio il portare i pantaloni talmente bassi in vita, da fare intravvedere quello che abitualmente si chiama "fondo schiena" e parzialmente anche la parte immediatamente inferiore.  Chissà se tutti quei ragazzi in pizzeria, che ordinavano un panino "poldo", conoscono questa storia.  Chissà se sanno di portare addosso un bel segnale di ....disponibilità.  E chissà cosa avranno pensato di me, mentre uscivo  ridacchiando, con 2 scatole di pizze patatine e wurstel,  in mano.

mercoledì 7 marzo 2012

occhi scuri

La mia amica dell'Ikea, mi ha inviato una foto.  Senza commenti.   In un bianco e nero, che ricorda i fantasmi (e infatti ha solo scritto un titolo: "presenze").   E' la foto di un viale alberato, all'ingresso di un ospedale.   E mi ha ricordato un'altra foto, che ogni tanto guardo, con una tenerezza che mi stringe il cuore.   Non ricordo piu' il racconto che faceva mia madre. Perchè mia nonna, invece, non me lo ha mai voluto raccontare.  Sicuramente, non lo ha mai voluto fare, per lo stesso motivo per cui aveva bruciato i quaderni neri, pieni di appunti e poesie,  legati tra loro con lo spago fino, come fossero rilegati per resistere al tempo. Come dovrebbero resistere i matrimoni.    Non so neppure se, davvero, lui sia stato in quell'ospedale.   Ricordo solo quell'unica sua foto.  Quella di un uomo, seduto su una sedia impagliata, con gli schienali in legno. Come quelle sedie che, un tempo, si portavano da casa, per andare in piazza Santa Maria, e poter ascoltare comodi, i poeti improvvisatori, sul palco della festa di mezzagosto.  Lui è lì, seduto in un cortile d'ospedale.  Con in testa un cappello a bustina, di quelli che mettevano i soldati, quando non andavano in guerra.  Una giubba non troppo pesante.  Pantaloni non troppo leggeri.  Troppo stropicciati, per uno abituato a essere sempre vestito con cura.  E gli scarponi slacciati.  Forse troppo scomodi, per un calzolaio, abituato a cucirli da sè.  E poi le sue mani, poggiate una sull'altra, a cercare riposo sopra le gambe. E infine, il capo, ostinatamente diritto, sulle spalle ormai curve, per evitare il riflesso del sole negli occhi scuri.  O forse per non incrociare, nell'obbiettivo della macchina fotografica, lo sguardo delle persone amate, a cui scrivere, sul retro della carta ferrania, quelle poche, stanche, parole di saluto. Qui mi cureranno bene.
Non so se, davvero, la tua nonna, abbia mai incrociato, nell'ospedale, quell'uomo seduto nel cortile.  Ho immaginato che potesse essere vero.  Ho cercato di vederlo negli occhi scuri, dentro una foto di donna bellissima.  Ho creduto di sentirli, mentre si raccontavano delle loro sofferenze, delle cure, delle ansie. Come nei libri di Milena Agus.  Cercando una mano da stringere, nei momenti di paura.  E allora, ho ripensato alla foto della mia amica dell'Ikea. E ho pensato che quei passi vuoti, nella neve di un viale alberato, fossero di qualcuno che non ho mai conosciuto. Di cui non ricordo la storia.