domenica 23 dicembre 2012

cane di natale

Mio zio e mia cugina, senza sapere l'uno dell'altra, mi chiedevano nei giorni scorsi,  di scrivere qualcosa del Natale.   In realtà, qualcosa di molto "mio", del Natale, l'avevo già scritto, senza preavviso.  Ma erano 4 piccole righe.   Di quelle che fanno parte del gioco di società, che è questo blog.   Un gioco in cui alcuni si possono riconoscere, da piccoli particolari.      Stasera ho fatto qualcosa di insolito.   Qualcosa che ricorda un pò, i riti d'iniziazione.    Quelli che si fanno presso certe tribù primordiali.    O per l'ingresso in certi club, associazioni clandestine, sette spiritiche, o robe simili.   Sono arrivato ai confini del mio mondo conosciuto. Sono penetrato nel territorio segnalato con il totem rosso e verde del pulcino pio (della tribù degli Auchani).   Oggi  ha un aspetto reso ancora più tetro, dagli ornamenti luminosi, che sono stati preparati.    Mi sono fermato in mezzo alla distesa di auto, spiaggiate come orche marine, quando vengono confuse dall'inquinamento dei mari.   Mi sono posteggiato-spiaggiato  in quella radura senza piante. Al centro, solo un unico grande albero di ferro.  Privo di rami, da sempre.  Anch'esso adornato dalle luci votive.   Poi ho preso respiro.   Ho chiuso gli occhi per un istante.   Ho premuto il pulsante del finestrino.   E ho atteso che quel mondo attorno, si facesse riconoscere ed entrasse nell'abitacolo.      
Uomini tristi, con il capo chino.  Calvi senza volerlo.   Arrivati in quel luogo, senza averlo mai veramente desiderato.    Escono dagli sportelli, lanciando uno sguardo intorno, quasi a controllare lo spazio che li circonda.  Come un marito a un appuntamento clandestino. Lanciano il raggio paralizzante, del telecomando immobilizzatore Fiat.   Poi prendono il cammino, tristi, capo chino, pugni in tasca.    Li posso seguire per pochi metri, prima che spariscano, tra i fili luccicanti, di finto ghiaccio bianco-azzurro.   Mi interrompe la giovane madre, che scende a fianco al mio sportello.  "Tu non sei bambina da fare uscire di casa!".  "Stai qui ferma, che ti devo controllare!".  "Fai quello che vuoi, basta che stai immobile e secca!".   E' solo un istante di distrazione.    Loro sono ancora lì.   Uomini tristi, a capo chino, che si muovono a piccoli passi.  Come appena fuori da una cella, in direzione delle docce comuni.   Quasi tutti, con giubbotti uguali, seguono donne, che sono scese un momento prima di loro. Donne che camminano con un passo che sembra lasciare orme sul cemento.  I loro compagni, seguono meticolosi,  quasi cercando di poggiare il loro piede su quell'impronta.  Sanno forse, ciò che li attende,  dentro al simulacro di vita,   nel cubo di cemento e ferro.   Molti  hanno già conosciuto quel luogo,  nei tempi passati.   Ma loro sono ancora qui.  Con un entusiasmo rassegnato. Mi ricordano così tanto, quegli altri uomini, che ho visto ieri.  Con i loro piccoli cuccioli.  Discutevano. Litigavano.  L'ultimo mi è rimasto impresso.  Camminava e si rivolgeva al cucciolo.  "Devi stare qui!".  "Te l'ho detto. Non scendere dal marciapiede!".  "Ma non capisci?".       Se il cucciolo avesse potuto rispondere, probabilmente avrebbe usato le parole, che mi sono passate in mente il quel momento.  "Come faccio a capire? Sono un cagnolino".  Anche lui triste, a capo chino.

venerdì 21 dicembre 2012

merry

Un libro da leggere.
Una matita per scrivere.
Un disco da ascoltare.
Un cuore per sentire.

giovedì 13 dicembre 2012

sudoku

Ho sentito parlare d'amore, un amico che non ne parla mai. Forse per questo, sono stato ad ascoltare, più del solito. È strano seguire l'analisi dei sentimenti, da chi in genere, parla di numeri e di logica. Però una cosa mi ha colpito. La sua idea, che tutti o quasi, alla fine, cerchiamo di catalogarli, certi nostri sentimenti. Non ammettiamo di provare emozioni o passioni, senza dare loro un nome. Senza attribuire un territorio definito. Altrimenti, lasciano andare via questi sentimenti, queste passioni, come fossero immigrati clandestini. Apolidi del nostro cuore. Ecco, il mio amico, diceva proprio questo. "Spesso noi giochiamo al Sudoku del cuore". Ci hanno detto che abbiamo a disposizione solo 9 caselle e che possiamo riempirle, usando solo i numeri dall'1 al 9. Ma quando incontriamo il numero uno-virgola-sette? Oppure due-virgola-cinque? Otto-virgola-nove? Se non riusciamo a dare un posto preciso, nei quadrati del Sudoku, a quei numeri, che pure ci appartengono, ci sentiamo in colpa. Non abbiamo un luogo di destinazione, per loro. Non esistono depositi di stoccaggio temporaneo, per certi sentimenti. Forse bisognerebbe inventare, per loro, delle comunità protette, dove farli crescere al riparo dai giocatori di Sudoku.

biro

Vedete questo scatto fotografico, così maldestro? Una delle cose, che spesso delude il mio spirito di bambino, è il non riuscire a fotografare ciò che mi capita di vedere.    Oggi, ad esempio, in un'alba pulita, senza veli, una bellissima luna a forma di culla, rivolta verso l'ultima luminosa stella.  E tra loro, quasi a tracciare una linea invisibile di armonia, un'altra piccola stella. Meno luminosa, quasi invisibile, con l'aumentare della luce del giorno. Ma così importante. Persino necessaria. Anche perché, a pensarci bene, la differenza tra una stella luminosa e una meno luccicante, è la stessa dello scrivere, usando una biro, punta fine, e una punta media. Nessuna differenza.  Conta ciò che scrivi.   Conta ciò che pensi.   Conta ciò che sei.


domenica 2 dicembre 2012

obbligo di catene

Avete presente, gli istant-book? Oggi ho deciso che scrivo un... istant-post. Non sarà granchè, come forma e stile, ma accontentatevi. Leggetelo seduti in poltrona, con il vostro pc o smartphone. Preparatevi anche il pop-corn, se preferite.
Non so se avete letto, da qualche parte, cosa succede oggi. Niente a che fare con la Profezia dei Maya. Per quella, dovete aspettare il 21 dicembre. Se viaggiate sulla Carlo Felice, oggi potete vedere un cartello, grande come una casa. "Dal Km 137 al Km 179 - obbligo di catene a bordo". Tutto ciò mi  porta a pensare tre cose (Valeria Rossi: Sole,amore,cuore). 
La prima. Dato che io viaggiavo in direzione da Sassari a Cagliari, il cartello l'ho letto al chilometro 189. Mi chiedo se l'obbligo di catene a bordo, valga solo per chi viaggia dal chilometro 137 verso il chilometro 179. Ma Se viaggio dal chilometro 179 verso il chilometro 137, l'obbligo vale lo stesso? E se vado in retromarcia?.
La seconda. In effetti, in Sardegna, nevica così poco, che probabilmente, l'Assessorato Regionale all'Ambiente, ha emesso un'ordinanza, che proibisce la rimozione, dalla carreggiata delle Strada Statale 131, della poca neve che scende dal cielo. Come accade per le spiagge. Non si può rimuovere la Poseidonia Oceanica dalle spiagge, perchè è una parte importante dell'ecosistema marino. Probabilmente, accade la stessa cosa, per la poca neve, che cade sull'altopiano di Campeda.
La terza. Il rispetto dello spirito ecologista di questa soluzione ("catene a bordo"), che peraltro, ci rende uguali alla Valle D'Aosta, impone un comportamento civico. In caso di controllo da parte degli agenti preposti, si apre il cofano per dimostrare la disponibilità delle catene suddette.  Ho proposto ad amici imprenditori, un'idea che possa alleviare i disagi degli automobilisti. Al chilometro 137 della Strada Statale 131, si predispone un piccolo chiosco, o un piccolo furgone, o un'utilitaria. Un pò come si fà per la vendita delle ciliegie di Bonnannaro, o delle angurie di Tramatza. Lo si completa di apposito cartello: "noleggio catene da cofano". Il resto, va da sè. L'automobilista interessato, si ferma, lascia una cauzione in denaro, ritira una busta contenente catene da neve, poggiandole sul sedile passeggero. Riparte e percorre tranquillamente la tratta dal Km 137 al Km 179 (ovviamente sgombra di neve, come nei 363 giorni dell'anno sardo). In caso di controllo, da parte degli agenti preposti, l'automobilista potrà elegantemente esibire il kit, dentro la custodia, dimostrandosi cittadino integerrimo e rispettoso delle norme. Arrivato al chilometro 179, l'automobilista, troverà un analogo chiosco (furgone, o utilitaria), che provvederà a ritirare la busta, contenente le ormai famigerate catene, restituendo la cauzione e trattenendo per sè un adeguato compenso (50 centesimi paiono adeguati), per il noleggio. Naturalmente, in punta di Diritto, non posso garantire  che le catene sul sedile, siano equivalenti alle "catene in cofano".  Tuttavia, mi pare indiscutibile che, le catene siano a bordo. Anzi, per risparmiare tempo nei controlli, nonchè un'inutile esposizione al rigido clima invernale, suggerisco fin d'ora, di predisporre appositi adesivi sul parabrezza. Li immagino fatti come quelli delle neo mamme. Anzichè "bebè a bordo", scriveteci "catene a bordo". Cosi saremo tutti più tranquilli.
Ps. Per evitare tutto questo disagio, vi suggerisco di transitare sulla Nuoro - Fonni - Lanusei, o sulla Mulargia - Macomer - Sindia - Bosa, dove l'obbligo, credo, non ci sia.  Probabilmente, su quelle strade, non nevica mai.  Assolutamente.  Ve lo garantisco.

sabato 24 novembre 2012

mani a paletta

Ho conosciuto Alyna, in questa vita, quando ero ancora un bambino.   Credo di averla conosciuta quando il dottor Fernando decise di curare la mia tosse, renitente ai farmaci, con il rimedio più efficace.    Fu così che mi ritrovai il giorno dopo, dentro il palazzo delle terme, nel paesino vicino al mio. Un'ora al mattino e un'ora la sera, avrei dovuto respirare quell'aria tiepida, umidiccia e  appiccicosa.  I risultati sarebbero stati sorprendenti.  O almeno così assicurava il dottor Fernando. E io avrei finalmente finito di tossire, abbaiando come un cagnolino bagnato.   In realtà, la cosa più sorprendente della cura, fu l'incontro con quella bambina.
La prima volta,  l'avevo vista così diversa da me.   Non aveva il pallore cereo del mio viso. E neppure gli occhi cerchiati dal livido delle notti insonni,  passate a tossire, o a sputare sangue dai bronchi.  Alle terme, in genere, si attendeva il proprio turno, seduti sulle panche di legno. Quella mattina, diversamente dal solito, la sala  era quasi vuota.   Io e lei, ci eravamo ritrovati in quello stanzone silenzioso, seduti ognuno, a un'estremità del tavolone che faceva da panca.   Voltandomi verso di lei, tirai fuori  una frase che doveva sembrarmi bellissima.   "Lo sai che ho uno specchietto, che ci brucio le formiche?".     L'altra estremità della panca, ruotò il capo verso di me, strabuzzando gli occhi scuri. Le sue mani a paletta, nascosero la smorfia di femminile disprezzo.  Come un pugile provetto, tentai subito, il secondo colpo. "Che ci fai di bello, con quelle mani a paletta? Ci scavi la sabbia a Mollegrande?".   "Io non ci vado al mare di Mollegrande, ma vado a Tandriola", fu la risposta fatta passare attraverso il filtro  delle mani.    A quel punto, qualunque essere femminile normale, avrebbe abbandonato la panca e il suo sterminatore di formiche.     Quel viso color mediterraneo, invece, staccò le mani dalla bocca, facendone intravedere le labbra sottili.
"Io con le mie mani, ci sposto i mobili".
Fino ad allora, non avevo mai conosciuto bambine che spostassero mobili a mani nude. Tantomeno, con le mani a paletta.   Fu così che  nei giorni seguenti, oltre a imparare a respirare quell'aria tiepida, umidiccia e appiccicosa, imparai a conoscere quella strana  bambina, con la passione dei traslochi. Ogni giorno mi raccontava molto di sè e della sua casa. Di come ogni tanto,  sentisse la necessità di spostare i mobili della sua camera.   Dapprima quelli  più piccoli.     Poi quelli più grandi.  Era come se, ogni giorno,  la  vedessi crescere.  Mi confidava che, cambiare la disposizione della propria camera, non le bastava più.  Mi raccontava di quando aveva iniziato a spostare anche gli arredi della stanza del fratello.  Poi della cucina.  Persino della sala da pranzo.    Spostare e modificare ciò che le stava attorno, riusciva a placare quella strana sensazione, che certi giorni, sembrava occupasse tutti i suoi pensieri.   Arrivò anche a spostare la propria casa.   Andando ad abitare in un altro luogo.  Ma dopo? Cos'altro avrebbe potuto spostare?  Mentre parlava, la sua espressione cambiava, il suo viso si faceva via via, più affilato, pur mantenendone i lineamenti  morbidi, di quando l'avevo conosciuta.
Cos'altro avrebbe potuto spostare?
Aveva ancora una cosa da spostare.   I sentimenti.
Mi disse che in tutti quei giorni di cure termali,  li aveva sempre tenuti con sè.  Custoditi al riparo da ogni curiosità umana.  Contenuti in quello che lei chiamava microcosmo. Ancora oggi, me l'immagino il suo microcosmo.  Un piccolo pianeta.  Un mondo invisibile e impermeabile agli altri. Me l'immagino colorato di uno strano azzurro, cangiante, come in movimento.  Una sfera, all'apparenza di vetro, ma morbida e tenera al tatto.  Così delicata, da poterci infilare le dita, sentirne il solletico sui polpastrelli.  Me l'immagino, come tutte le cose più prezione, che per essere protette, sono sempre bene in vista.  Posato su un  mobile basso, in mezzo a tante piccole statuine di angeli, zebre e tartarughe di cristallo.  Così, mentre davanti ai miei occhi, la bambina mutava in ragazza, adolescente, giovane donna.  Io, ascoltandola, restavo bambino.   Irrimediabilmente.
Ritornò bambina solo per un istante.  Salutandomi con il suo sorriso.  Mentre attraversava il mulinello cristallino, della porta  girevole,  lanciandomi un bacio, con lo schioccare delle labbra sottili, attraverso il vetro.
Un istante, durato il tempo di tre parole:
"Abbiamo un nostro microcosmo".
"Che non è di nessun altro".
"Pieno di emozioni".
"E' bellissimo".
"Non si può!".

"L'hai nascosto?".
"Dov'è,  ora?".

"L'ho spostato".

 
Quando ci lasciavamo, non ci pareva di separarci, ma di andare ad attenderci altrove. (CesarePavese)

mercoledì 21 novembre 2012

mani

"Libero la mia mano, portandola al collo dolente,  e mi ricordo.
Porto ancora il segno.
Viene con me.
In ogni luogo. O qualunque momento, senza preavviso.
Come cicatrice benefica.   
Indelebile, eppure invisibile.
Carta geografica dei miei luoghi.   
Mappa del mio viaggio.
Disegno stampato a fondo, nell'involucro della mia anima.
Ha la forma di una mano fresca e morbida,  
poggiata sul collo rovente e ruvido.
Nata come carezza.
Perduta come un fantasma."

(inaspettata, l'ho trovata in un luogo che non cercavo, ma non vi dirò dove)


martedì 13 novembre 2012

le strade dritte

Sono andato a guardare la lista degli avvenimenti, in un anno a caso: 1962. Primo film di Zero-Zero-Sette, primo disco a 45 giri dei Beatles, primo numero di Diabolik in edicola, crisi dei missili a Cuba, morte di Marilyn, indipendenza del Burundi, Nettuno e Plutone si allineano. Mi sono venute le vertigini e ho smesso di leggere. Questi calendari sono come le enciclopedie mediche. Nei calendari, ogni anno ha un sacco di avvenimenti importanti. Nelle enciclopedie mediche, ogni scheda che parla di una qualunque malattia, finisce che il malato muore. O, almeno, così mi disse il mio barbiere, quando chiesi il motivo per cui buttava il volume Zanichelli, comprato con Sorrisi e Canzoni tv, dentro la pattumiera condominiale. Quello era lo stesso anno in cui mio zio, assieme ad altri, decise di partire fuori dall'isola, per andare a vivere e lavorare (non so quale fosse l'ordine delle priorità) nel nord Europa. Nella più grande città fluviale del nord Europa. Non gli ho mai chiesto, se avessero scelto, dopo avere guardato qualche atlante geo-politico, o qualche cartolina del lago Alster. Diversamente da me, non ha mai pensato di tornare al borgo natio. Nè, mi pare, risenta troppo, ancora oggi, del richiamo della valli e dei fiumi della Terra Madre. Naturalmente, in tutti questi anni, ha incontrato anche la madre dei suoi figli. Una bellissima donna. Credo l'abbia conosciuta in una fabbrica di valvole per televisori. Lo so. Non è come "La fabbrica di cioccolato" di Tim Burton, pero' ricorda molto "Flash Dance". Adesso, dopo molti anni di lavoro, spesso notturno, inizia a essere un pò stanco e non si fa mancare qualche acciacco, di cui potersi lamentare, al telefono con sua sorella, rimasta a galleggiare sull'isola dei Giganti di Monte Prama. Lo fa sempre sul filo dell'ironia e del sarcasmo leggero, imparato negli anni di collegio dai Salesiani. La maggiore delle figlie, Alexia, è diventata medico e poi chirurgo. Come le altre sorelle, è una persona dolcissima, capace di grandi slanci e dotata di grande passione per il proprio lavoro. A volte riusciamo anche a fermarci assieme per pranzo. In genere è, più che altro, uno spuntino veloce. Oggi, il caso ha voluto che la mia amica Alyna, non avesse voglia della solita passeggiata fino alla trattoria, e quindi ha convinto Alexia a stare con noi, per mangiare una fetta di pizza napoletana. Così, durante la pausa, abbiamo scoperto un'altra dote della primogenita. Per mezzora, non ha mai smesso di parlare e raccontare di sè. Sono riuscito a fermarla, solo quando ho fatto presente che avremmo dovuto riprendere il lavoro, lamentandomi del fatto che il mio nuovo incarico, era piuttosto impegnativo, pure se gratificante.  "Non tutte le strade sono dritte, caro dottore", ha sentenziato con grande tenerezza. E' stato bello sentire quella frase, così piena di simbolismo. Ho riprovato una sensazione, che mi ha riportato alla mia vecchia casa da studente universitario, in viale Dante. Ho ricordato quella stessa sensazione, avuta nel sentire le parole della mia amica Pierina, stremata dai preparativi di un esame ostico, come Patologia Medica. La ricordo ancora benissimo, poggiata al davanzale, dove coltivava il suo basilico, impugnando un coltellaccio da cucina. "Perchè, devi sapere, che nella vita, ci sono giorni d'estate e giorni d'inverno". Adesso potete capire perchè, un istante dopo, ho voluto salutare la mia amica Alyna, ricordandole l'affettuoso invito della cuoca, davanti alle polpette della mensa della scuola materna di Santorino: "preferisci quelle che vuoi".

martedì 6 novembre 2012

ginocchia sbucciate

Capita anche a voi? Giornate che finiscono. In cui mi siedo e guardo con tenerezza, le mie piccole  vecchie cicatrici sulle ginocchia. Segni delle mie cadute da bambino. Grandi dolori, segnati dalle lacrime ancora poco salate. Segni di dolori ormai lievi e lontani. Mi fanno compagnia, le mie cicatrici di bambino. Mi consolano, dicendomi che i dolori dell'oggi, un giorno, saranno piccoli segni sulla pelle, di cui andare fiero. Di cui sentire tutta la passione del vivere. Anche cadendo.

venerdì 26 ottobre 2012

celeste azzurro





Certe mattine, mi trovo con la faccia gonfia, vecchia, magari stanco. Poi vedo le mie tre stelle in fila, che scompaiono, con il sole che sorge, e con la luce del giorno che inizia. A volte, come oggi, è una luce così chiara e trasparente. Con i colori che sono solo per me, che nessuno può vedere, e neppure raccontare. Non mi importa più della stanchezza o di altro.  Capisco che non ne potrei fare a meno. Come una cosa che fa parte delle mie giornate. Della mia vita. Posso dire di essere un uomo ricco, se posso dimenticare di essere in ritardo,  rallentare la velocità della mia macchina, fermarmi su un pezzo di strada umida,  per godermi questa luce, un pò più a lungo. Guardando l'orizzonte, lo vedo come disegnato da una matita invisibile, che separa con una linea continua, l'azzurro del profilo delle piccole montagne, dal celeste del cielo senza nuvole. A quell’ora, non saprei cosa volere di più. Magari solo fartelo sapere. Perché, come diceva quell’accidenti di scultore greco, che non mi ricordo mai come si chiamava, “il dare, non toglie niente”.
(ps.la foto è un mio scatto del venticinque ottobre)


venerdì 5 ottobre 2012

Milano Centrale - Bologna Centrale

 MILANO CENTRALE
Una volta, ho letto che gli "occhiali rosa", che mettiamo in certi periodi della vita, modificano veramente tutto ciò che vediamo intorno a noi, rendendolo diverso, almeno ai nostri occhi.  Trovo di un fascino imbarazzante, persino il groviglio di fili, pali, luci e cartelli, che si intrecciano allo sguardo, mentre esco dalla stazione di Milano, e mentre cerco di immaginare cosa fossero quelle vecchie stazioni con le loro tettoie disegnate e forgiate. E così, nel tempo che impiego a scrivere i miei pensieri ferroviari, alzo lo sguardo nuovamente, per scoprire di essere già alla piccola stazione successiva. Lambrate. Dove niente parla di ciò che era. Solo presente. Solo un momento di passaggio. Nulla che chieda per sé, un briciolo delle mie emozioni. Tutte ferme lì.  A Milano.  Impigliate nel groviglio di fili, pali, luci e cartelli.

ROGOREDO
Chissà perché, mi sembra che le ragazzine e i ragazzini di Piacenza, mi appaiano meno "belli" di quelli che puoi incontrare a Bologna. Anzi, quando il treno si ferma alla stazione di Rogoredo, ti sembra che le ragazzine e i ragazzini, che salgono in direzione Bologna, siano già più belli, più felici.

LODI
É come se questa terra volesse fare una promessa. Farmi vedere in questo anticipo di sole, come potrà essere la primavera, nella pianura piatta. Dove risaltano quelle fattorie. Bellissime. Non puoi dire di avere mai visto una fattoria, se non hai visto brillare quei casali, delineati da una striscia piatta alla base, e dagli alberi alti e spogli nella verticale. Come i disegni a china, che mi facevano fare da ragazzino.

PIACENZA
Mi piace lasciare lo scompartimento, un quarto d'ora prima dell'arrivo. Lascio il suono ovattato della prima classe, per sentire il rumore del vagone, che scorre sui binari. È un  suono più adatto al panorama della pianura, che scivola dai finestrini.

"Potresti mancarmi. Senza nessun altro motivo, che non sia la curiosità di scoprire."

domenica 30 settembre 2012

i diari della lambretta

Come tutti,   continuo a tenere amorevolmente custoditi, i piccoli episodi di quando avevo più tempo per oziare e svagarmi.  Non ho mai approfondito se il termine svagarsi, abbia o meno una relazione con quello a me più confacente: vagare.  In genere si dice, con un'accezione non propriamente positiva, "sei uno svagato".  Io invece,  penso che vagare per cinque, dieci, venti minuti, o anche per un intero viaggio in treno o in automobile, sia un esercizio molto bello. Certo, bisogna essere predisposti, geneticamente, oltre che psicologicamente.  In questo senso,  credo proprio che "svagati" si nasca.  Un pò come vanitosi, narcisi, impulsivi, precipitosi, eccetera.  Molto spesso, chi possiede questo talento naturale, si trova a vagare, senza neppure averlo programmato o desiderato. Naturalmente, con buona pace della mia collega Neurologa, il mio vagare è strettamente relegato ai pensieri.  Anche se talvolta può accadere di trovarsi a vagare con i pensieri e ritrovarsi a vagare anche fisicamente, per le strade di una città sconosciuta.  Ecco.  Ho divagato.   In realtà volevo scrivere ciò che ho promesso a Gianrico, venerdì sera al bar.  Volevo scrivere del nostro amico Attilio.  Attilio si era diplomato all'Istituto Magistrale.  Oggi si chiama, con la solita gazzosa all'italiana, "Liceo Socio-Pedagogico". Trent'anni fà, sfornava cultura e capacità di trasmetterla. Oggi, dopo il diploma, devi proseguire gli studi universitari, alla facoltà di Scienze dell'Educazione. Quella che, mia nipote chiama, sogghignando "Scienze della Merendine". Ma si sa.  Lei è una carogna.  Niente a che vedere con la tenerezza del ricordo di Attilio.  E dell'anno in cui, per affrontare il concorso nazionale, per l'accesso all'insegnamento, si preparava, come quasi tutti, seguendo lezioni private.  Aveva scelto un collega in pensione, in grado di chiarire i concetti teorici, con l'aiuto dell'esperienza. Si chiamava Maestro Zevola. Suppongo che Zevola fosse il cognome. Ritengo che Maestro fosse il nome di battesimo, visto che non l'ho mai sentito chiamare in modo diverso.  Ho sempre pensato che la scelta del proprio tutor, da parte di Attilio,  non fosse frutto di razionalità, ma di istinto. O se preferite,  come spesso sostengo, del caso.  Sempre il solito Caso.  Quello con la ci maiuscola.  L'ho sempre pensato,  perchè la cosa a cui era più legato, il mio amico carissimo, dopo i genitori, che adorava,  era la vecchia lambretta del padre.  La curava premurosamente, tenendola sempre pulita, con le cromature luccicanti. Girava la Sardegna, alla ricerca dei pezzi di ricambio (internet non c'era). Ossessionava Alessandro, il meccanico, per le riparazioni necessarie. Una Lambretta era anche il mezzo di trasporto del Maestro Zevola. Credo che questa comunanza motoristica, fosse anche il segno di una comunanza culturale e spirituale. I due Lambrettisti, si erano trovati a percorrere assieme un pezzo della strada della vita. Il vecchio Maestro, nel tratto finale, ad accompagnare il giovane Allievo. Ricordo ancora, le pochissime volte in cui era venuto in paese.  Il suono sofferente del motore dello scooter, che cercava di sorreggere il peso del Maestro. Era un uomo di notevole stazza, come spesso erano gli abitanti di Oroseppi. Imponente ancora di più, quando lo vedevi arrivare con un trench grigio scuro, che svolazzava, come il mantello di Batman. Passava il primo minuto a cercare di asciugare il sudore del viso e delle mani, con un fazzoletto ricamato agli angoli.  Il sovrappeso, lo faceva ansimare, anche quando parlava, seduto su una poltroncina della camera da pranzo, in casa di Attilio. Passarono l'intera estate, come gli studenti con la supplente, nei film con Alvaro Vitali. In alcune occasioni, Maestro e Allievo, si organizzavano piccole gite fuoriporta. Escursioni motorizzate, verso luoghi più o meno vicini. Sorrido immaginando che durante il percorso, uno facesse domande all'altro, mentre procedevano affiancati sulle moto.  Alla fine dell'estate, il concorso fu superato brillantemente. Il mio amico diventò maestro elementare ed ebbe il suo primo incarico nel paesino di Belvì. Del Maestro, mi resta vivissimo il ricordo di un particolare, che mi ha ispirato nel citare i diari di una motocicletta molto più famosa. Il basco. Di colore nero, da cui non si separava mai e senza il quale, non prendeva mai la guida della sua lambretta color beige. Il basco. Calcato bene sulla sua grossa testa, ormai senza capelli. E chissà se, in giovane età, lo avesse portato con barba e chioma fluente, immaginando che la strada di ghiaia bianca, che percorreva per andare a scuola, fosse un pezzo di Bolivia.

martedì 18 settembre 2012

carta da pane 1

Capita, che un oggetto di uso quotidiano, ci meravigli,  quando lo ritroviamo in una veste inconsueta, in un uso del tutto inaspettato. Capita soprattutto, se lo ritroviamo davanti a noi, a rappresentare qualcosa di più elevato; a essere trasformato in qualcosa di  meno materiale. Ho incontrato per due volte, la carta del pane. Quella delle buste dove, da studente mattiniero del lunedì, alloggiavano temporaneamente, un paio di tartarughe del panificio Ballarini di Viale Dante. Il lunedi' mattina alle 8, potevi respirare il profumo dei forni in piena città, proprio come, adesso che non sono più studente, mi piace sentire l'odore dell'erba appena falciata, o della terra appena bagnata, o l'aroma del lentischio o del ginepro, mentre torno da Stintino, nelle sere più calde. Quando penso alla carta delle buste del pane, riesco a sentire, ancora oggi, quella sensazione che mi procurava il pane, ancora tiepido, portato a casa,  sulle scale larghe, della Signora Girau. Eppure, i ricordi più appassionati che ho, della carta a grana grossa, con il colore del legno di betulla, sono altri. Distinti nel tempo. Quello che stà più in superficie, è il ricordo di un piccolo viaggio, fatto in compagnia di Joice. Anzi, come spesso è accaduto, di un piccolo, brevissimo viaggio, fatto al suo seguito. La carta delle buste del pane, è il segno impresso nella mia memoria di quella gita. Ho ancora davanti agli occhi, l'immagine, incredibile, di centinai di piccoli pezzi, di quella carta color nocciola. Piccoli. Accuratamente ritagliati a mano, in piccoli rettangoli irregolari. Disposti per terra in piccoli mucchietti, alla base di un gigantesco ginepro. Protetti dal sole della spiaggia d'oro, nell'ombra dei rami, tagliati con cura, per dare forma a un rifugio. E altre centinaia di altri piccoli pezzi di carta nocciola, infilati in mezzo ai rami del ginepro secolare. Arrotolati come piccoli sigari cubani, ma vuoti dentro.  No. Non vuoti.  Ripieni.  Stracolmi di qualcosa, che ancora oggi mi sorprende. Bastava prendere uno qualunque di quei cigarillos, per trovarsi senza respiro, anche dopo quella salita ripida. Bastava srotolare quel piccolo rettangolo di carta per il pane, per trovare all'interno, la conferma di quello che lei mi aveva raccontato per settimane, seduta sul suo letto senza doghe. Ogni piccolo foglio, una volta aperto, rivelava, senza mai deludere, il suo piccolo ripieno di vita. Era il ricordo di poche righe, lasciato scritto da una biro o da una matita, di chi era già passato in quel luogo e aveva già fatto ciò che gli si chiedeva. Erano i pensieri di chi aveva seguito l'invito, scritto su quel cartello, all'entrata, infilato nella terra argillosa, su cui poggiava le radici il grande ginepro. "Siate benvenuti alla casa del poeta. I vostri sentimenti siano i frutti che germogliano nella casa-albero".
Sono passato altre volte a trovare la  casa del poeta. Ci sono sempre passato,  come si va a fare visita a un amico dell'adolescenza. Ogni volta ho lasciato altri miei pensieri. Fino a quando ho capito, che non avrebbe voluto che io la vedessi, mentre invecchiava troppo in fretta. Credo che si consumasse, chiedendosi perchè, il suo vecchio poeta, non venisse più a curarsi di lei. Forse perchè le case e i ginepri, sono come i bambini. Pensano che il sonno duri solo una notte.


lunedì 17 settembre 2012

flash




Credo che se un giorno fossi un fantasma, non resisterei alla tentazione di venirti a trovare. E se fossi uno spirito invisibile, cercherei un modo per parlarti.

venerdì 14 settembre 2012

il sax di fausto papetti

Ho ripreso a viaggiare molto spesso. In realtà viaggio tutti i giorni, come un rappresentante di commercio, ma faccio finta che non sia così. Il piacere del viaggiare, per un'ora, al mattino presto, quasi sempre al buio, viene dal fatto di poter sentire un silenzio che si riempie di suoni. Anche a dieci gradi di temperatura, apro un pò i finestrini, per fare suonare l'aria a centotrenta chilometri orari. Lo so quello che pensate: che la vera ebbrezza della velocità, inizia quando si va a centosessanta. Ma quando si parte al mattino presto, non si ha lo spirito della sfida, come accade invece nei pomeriggi di primavera, quando si possono fare le gare, magari fermandosi al pit-stop, nelle piazzole della superstrada, prima del distributore. Al secondo posto, dei piaceri del viaggiatore quotidiano, c'è sicuramente l'ascolto delle canzonette. Con i tempi moderni, è diventato facile avere una bella playlist, con tutto quello che occorre per passare sessanta minuti, cantando romanticamente a squarciagola. Ma se fate un piccolo sforzo di memoria, ricorderete che ci sono stati tempi, in cui i dischi occorreva comprarli e l'unico modo per avere tutti i successi, in un unico disco (vinile, a 33 giri), era comprare gli album di Fausto Papetti. Fausto... Chi?    Era un signore che, negli anni sessanta e settanta, suonava i successi del momento, con il suo sassofono.  Una tristezza.   Con brani pronti all'uso, per ballare quelli che allora si chiamavano "i lenti". Ballare un lento, era il modo più pratico e apparentemente disinteressato, per stare finalmente appiccicati in due, su un pezzo di pavimento, ondeggiando alternativamente sulle gambe.  Per fortuna, ci fu un momento in cui tutto cambiò. Fu alla fine del 1969. Un furbacchione francese, signore di mezza età, fidanzato con una ragazzina, decise di fare un disco molto impegnativo. Con un testo naturalmente molto impegnativo. E una melodia naturalmente molto...lenta. Ma siccome, il signore si chiamava Serge Gainsbourg (Serge...chi?), il suo disco fu un successone europeo. Niente fu più come prima. Ballare con quel disco diventava un vero oltraggio al pubblico pudore. Come andare in topless alla spiaggia di Giorgino a Cagliari. Perchè invece, a Cala Ginepro, si poteva già fare (ho le prove; una foto, da qualche parte, di una turista, francese, naturellement). Fu cosi, che anche in Italia, iniziò il filone dei dischi di ambiente. C'era un gruppo che si chiamava "Daniel Sentacruz Ensemble", con un brano che si intitolava "Soleado". Si. Proprio quello. Il cui testo era composto da una sola vocale: "o-o-o-oh-o-o-o-o-oh!". Segno dei tempi. Ricordo che proprio "Soleado", fu il nome, evocativo e simbolico allo stesso tempo, che fu dato alla prima sala da ballo del paese. In un anticipo di quello che oggi, si definirebbe glocal (globale e locale), o etno-pop, l'insegna appesa all'ingresso del locale (un garage, scantinato, magazzino, seminterrato), era una vecchia ruota di carro, di legno, pitturata di bianco e con i raggi celesti. Con la scritta dipinta in modo certosino, in corrispondenza dei singoli raggi. In quella sala c'era la rappresentazione del futuro. L'anticipazione della bella vita, che aspettava tutti noi, trascinati dal fiume della petrolchimica, nel gorgo voluttuoso della voce di Jane Birkin. Non ho mai saputo che aspetto avesse questo futuro. Ero troppo piccolo e non mi fecero entrare. E il Soleado, chiuse i battenti prima che io avessi l'età adeguata per poterci mettere piede.

lunedì 13 agosto 2012

contrasto

Per contrasto con una bellissima giornata di sole estivo.
Per caso un ritratto a metà tra Rembrandt e Caravaggio.
Una notturna signora emiliana, con cestino floreale, affiora dalla memoria del telefono.

venerdì 3 agosto 2012

domenica 22 luglio 2012

attesa imbarco

Mi scuserai se faccio il saputello. Ma è qualcosa che mi piace condividere (non nel senso di fb).  Lei si chiama Shibata Toyo. E' una signora giapponese, che ha iniziato  a scrivere poesie a novant'anni. Adesso ne ha cento. Io ne ho la metà e aspetto in aeroporto, leggendo il libro di poesie della centenaria giapponese, che ho preso l'altro giorno. Con la mia matita gialla, con le tabelline stampate sopra, ne ho segnato alcune. Ne ho scelte tre, che ti ricopio qui sotto.
 ''Quando qualcuno mi ha fatto una gentilezza, io l'ho depositata nel cuore. Nei momenti tristi l'ho tirata fuori e ho riacquistato il buonumore. Anche tu metti da parte le gentilezze e abbine cura ancora più dei soldi della pensione."
"Solo in seguito, mi accorgo quanto le mie parole feriscano involontariamente le persone. E allora di corsa mi addentro nel cuore di queste persone e mentre chiedo scusa , con la gomma da cancellare e con la matita emendo le mie parole."
"L'acqua calda versata dal bricco è simile a parole soavi. Le zollette di zucchero del mio cuore nella tazza teneramente si sciolgono."

mercoledì 18 luglio 2012

l'altro mondo (uno)

Un'altra volta ho citato il film di Giuseppe Tornatore "Nuovo cinema paradiso". Ma stavolta non raccontero' di ricordi cinematografici. Vi diro' soltanto che, se Giancaldo ha avuto il Cinema Paradiso, il paese di San Nicolo' ebbe "L'Altro Mondo". Tutto inizia con l'arrivo di due forestieri. Il signor Roberto e la signora Anna erano arrivati in un giorno imprecisato, di un anno imprecisato. E probabilmente per un motivo imprecisato. Se fosse stato uno che passava le giornate a leggere o a scrivere, si sarebbe pensato di lui come di un confinato. Uno sottoposto a restrizioni, per motivi politici o roba simile. Magari un anarchico. Oppure uno di quelli condannati, come diceva mia nonna, al domicilio coatto. Che lei pronunciava tutto attaccato come fosse un'unica parola. Ma signor Roberto non dava nessun segno. Nè la sua parlata toscana, forse aretina, serviva granchè, per investigare sul reale motivo, che poteva portare un essere umano da quelle parti; nel centro del centro dell'isola.  Era sicuramente arrivato già prima che io nascessi, questo è certo, ma se chiedete a chiunque c'era in paese, nessuna versione o data, sembra concordare. Comunque, lui stava lì. Qualche volta al bar, ma molto più spesso, lo si vedeva davanti alla casa in cui abitavano. Seduto su una delle prime sedie a sdraio, arrivate in paese. Comodamente poggiato. Con la sua canottiera, sempre bianchissima.
Che non fosse un miliardario, in fuga dalla notorietà, lo si capi' quando iniziò a fare qualche lavoretto. Possedeva infatti una notevole serie di attrezzi per lavorare il ferro, compresa la seconda saldatrice elettrica del paese (la prima, e fino a quel momento unica, la possedeva e gestiva, come un signorotto feudale, il signor Giovanni). Era bravo, il signor Roberto.  Riusciva a costruire e riparare tutto quello che gli si chiedeva. Lavorava di martello, lima e seghetto, con grande maestria e padronanza. Questo era un forte indizio, per gli investigatori indigeni. Specie per chi aveva già notato che lo straniero, mancava di un paio di falangi delle dita di una mano. Non aveva in realtà un forte spirito imprenditoriale. Accettava e iniziava un nuovo lavoro, quando necessitava di contanti. Spesso il ricavato ottenuto al termine, spariva rapidamente. Per questo, l'intervallo tra un lavoro e l'altro, era proporzionato a quanto aveva guadagnato in precedenza. Come tutti i toscani, era però, lungimirante. Così, non passò molto tempo, che decise di intraprendere anche un'altra attività. In una parte della casa, comparvero delle galline. Decine di galline. Centinaia di galline. Con i suoi attrezzi, costruì anche un grande pollaio, in ferro e vetro. E tutti potevano finalmente avere la carne di pollo, senza aspettare la morìa di quelli domestici. Ricordo ancora l'anziana vicina, rientrare trionfante verso casa, tenendo per il collo la gallina appena acquistata, mostrandola alla comare, che manifestava la sua entusiastica approvazione. Per non parlare dell'encomiabile capacità di porre fine alle sofferenze dell'animale, in modo rapido e indolore. Oppure del tempo passato a sentire le chiacchiere di paese, mentre si procedeva a spiumare il futuro pranzo (e cena) del giorno. L'idea del signor Roberto e il lavoro della signora Anna, insomma, funzionavano. E il pollaio fu ingrandito, per ospitare un maggior numero di pulcini. In paese sarebbe arrivata una colonia di galline, come non se n'erano mai viste. Ma nessuno immaginava che, di lì a poco, un'altra colonia sarebbe arrivata. E anche per loro, si sarebbero dovuti preparare nuovi pollai.

martedì 10 luglio 2012

codogno

Un finestrino rigato dalla condensa della pianura padana, un filtro dello smartphone, ed ecco la vecchia stazione di Codogno, capace di farvi ricordare una vita precedente, ai primi del 900.

milano - linate

 "un giorno saprò dirti perchè mi sento così felice"
Chissà come sapeva che l'autobus dell'aeroporto, quella sera, avrebbe dovuto fare una deviazione, causa incidente stradale. Chissà da chi avrà saputo, che io siedo sempre sul sedile a sinistra, subito dietro l'autista. Certo, sarà stato un caso, che il semaforo rosso, quella sera, durasse piu' a lungo del solito.
Ma appena mi ha visto arrivare, lui era già lì. Pronto. Con il cartello in mano. E mi guardava. Non ho potuto fare altro, che sorridere con lui, mentre il semaforo restava rosso per un tempo infinito. Talmente infinito, da lasciarmi il tempo di scattare una foto con il telefonino. E di continuare a leggere quelle 2 righe gigantesche. E di continuare a sorridere con lui, mentre mi guardava ripartire verso linate.

mercoledì 13 giugno 2012

insetti uno

Ma che ci faccio io,  in un posto pieno di moscerini? Me lo sono chiesto, mentre rientravo al mio convento di clausura part-time. Perché ci sono punti in cui, i pantaloni timberland beige, diventano improvvisamente micro-leopardati. Accade sotto i tuoi occhi, come negli effetti speciali di Indiana Jones. Sono milioni, miliardi, più delle stelle della nebulosa di Andromeda, che vedevo da bambino nell'enciclopedia dei Quindici. E arrivano lì da te. Guidati telepaticamente da un'intelligenza aliena. Sono dovunque e tu non puoi impedire neppure che uno dei missili intelligenti, entri nel centro di comando, per renderti inoffensivo. Centrando perfettamente il tuo occhio, nonostante la tua manovra di difesa, che ti fa tenere gli occhi socchiusi, fingendo che sia per il sole in faccia.  Ma che ci faccio io, qui? In un posto con così tanti moscerini, che ti domandi, come facciamo gli uomini e le donne, ad andare così veloci, in bici, e così sorridenti.  No.  Non mi chiedo che cosa abbiamo da ridere. Mi domando soltanto: ma non gli entreranno troppi moscerini in bocca?

mercoledì 6 giugno 2012

consolazioni

I gerani della signora fulvia sono uno spettacolo; non puoi non fermarti a meravigliarti, almeno un momento. Li ho messi nel mio diario fotografico su facebook, ma non potevo non farveli vedere.

corti racconti

Mia cugina dice che scrivo cose troppo corte. Forse ha ragione. Ultimamente dormo poco.  I racconti, a volte, sono come i cervi di Scivu.  Se vuoi vedere i cervi e i cerbiatti, che scendono verso il mare, per mangiare il sale, occorre sedersi e aspettare. Aspettare che ci sia il silenzio e che il silenzio sia abbastanza lungo. Occorre aspettare che arrivi il crepuscolo, e subito dopo, tenere lo sguardo fisso sui lentischi, sui ginepri, sui minuscoli sentieri, invisibili, tracciati dai cervi, giorno per giorno.  Solo allora,  se ci credi veramente, sentirai qualcosa che somiglia allo stormire delle fronde. Non devi stare immobile. Devi seguirli, guardarli negli occhi, come loro guardano te.  A volte i loro occhi luccicano. Per i romantici del medio campidano, riflettono la luce della luna piena.  Per i turisti milanesi, riflettono le luci del vecchio villaggio Valtur, di Portu Maga, quando passano a fianco dei campi di calcetto, per raggiungere lo stabilimento in concessione (2000 euro l'anno). Ma io volevo solo rispondere a mia cugina. Se volete provare l'emozione, che io non so raccontarvi, prendete la strada per Arbus, e poi cercate la strada per Portu Maga. Andateci quando volete. In una qualunque sera dell'anno. Andateci con chi volete:  romantici appassionati di reincarnazioni,  o veterinari dell'asl, esperti conoscitori di fauna sarda. Ognuno potrà vederci quello che custodisce nella propria anima. Il mio amico Bobore, l'ultima volta che c'è stato, ha tenuto un simposio sulla rappresentazione naturale, della fierezza del popolo sardo, incarnata, a suo dire,  dal cervo mastodontico piazzato davanti a lui. I racconti, invece, hanno bisogno di ritmi calmi, serate lunghe, pause senza tempo. Hanno bisogno di profondi respiri, che svuotano la testa, e di emozioni che la riempiono. Poi bisogna aspettare che arrivino i ricordi. E quando i ricordi, finalmente, arrivano, li devi guardare negli occhi, vedendoci ciò che riflettono. Allora puoi iniziare a raccontare quei ricordi. Sono i tuoi e di nessun altro, perchè, come dice la mia amica Neurologa, "ognuno di noi, fa la plastica facciale alla realtà della vità, adattandola a sè e ai propri desideri".  Cara cugina, come avrai capito, ultimamente non scrivo racconti lunghi, perchè mi perdo facilmente, come nei piccoli sentieri tracciati dai cervi, sulle colline che vanno a Scivu. 

domenica 3 giugno 2012

maestrale due


In questo sole di giugno, sembra così lontano l'inverno. Così tanto, da non sentirne nostalgia. Mentre tornano a farmi compagnia gli uccelli che mi portano i tuoi pensieri.
La mia strada preferita. Dove i colori rossi, gialli e viola non si sono ancora spenti e i papaveri non sono ancora sfioriti, nel caldo della primavera, che diventa estate. Così belli e profumati, che rinuncio a fare una foto, perché non riuscirebbe a dare l'idea della loro emozionante bellezza.
Sono a casa. Sono nel mio sole, nella mia luce e nella mia aria. Nel mio cielo azzurro e pulito. Nel maestrale, che senti anche quando ti dicono che non c'è. Nell'aria profumata di lentischi, anche quando dicono che non c'è.

maestrale uno


Torno qui. Di notte. E sento l'aria diversa. L'aria che mi viene incontro.  Come una canzone d'amore, che racconta storie bellissime. Storie che quell'aria vuole sentirsi raccontare. Storie di pensieri, di sorrisi, di tempo che passa sorridendo. E quell'aria della notte, è così diversa, mentre ti dice di averti aspettato così a lungo.
 "Bentornato a te", che ti guardi intorno, cercando di capire, cosa possa riempire il vuoto lasciato. Non so se sia tu o la Grande Madre, che tutti credono di sentire. Ma so che questa che mi circonda, è una cosa mia. O forse io sono suo. Chissà dove sei. E se ti arrivano le mie piccole lacrime d'emozione.

martedì 29 maggio 2012

lampadari

Non ho mai dato molta importanza ai lampadari. Dopo 10 anni, non ho neppure finito di metterli in tutte le stanza della casa, lasciando appese delle lampadine minimaliste.  Ma in questi giorni, non faccio altro che guardarli, ogni volta che entro in una stanza, in un ufficio, in un bar. Dovunque cerco di capire subito, dove si trova il lampadario. Così, se mi sembra di avere un pò di vertigini, posso subito scoprire se invece, non sia un'altra scossa di terremoto. Perchè, per un sardo, l'unica differenza tra un calo di zuccheri, un camion che passa, e una scossa tellurica, .....è il lampadario che oscilla.

bach & don camillo

Ascolto Bach, suonato in una chiesa.  E penso che solo qui, in Emilia, può arrivare una vecchia signora, in ritardo per il  concerto già iniziato. E solo qui, una vecchia signora, può arrivare ed entrare in chiesa, tranquillamente, con la sua bici, da posare amorevolmente, sulla fonte battesimale. Per poi andare a sedersi e ascoltare beatamente il concerto, ondeggiando il capo, con i capelli bianchissimi. E mentre ascolto quella musica, guardando tutti gli affreschi sopra di me, riesco a ricordare che Guareschi non poteva essere nato in un posto diverso.  "Monsignore, non la trattengo...".

mercoledì 16 maggio 2012

deviazioni in musica

Premessa: come dico sempre, la "e" non si mette all'inizio di una frase; ma oggi è andata diversamente. E scusate per la sintassi.
Come sempre capita, ci sono deviazioni inconsuete, che fanno apparire le coincidenze e il caso, del tutto inafferrabili, ai nostri tentativi di spiegare ogni cosa con la ragione.  Il che, detto in parole povere, significa che stasera ho fatto una deviazione, rispetto al solito percorso, per rientrare a casa.  E mi sono ritrovato davanti alla piazza del Teatro Municipale che, di solito, a quell'ora, è sconsolatamente vuota.  Oggi invece, quel movimento di essere umani, ha attirato la mia curiosa attenzione, che pure era già rassegnata, alla scelta delle preferenze per la cena.   E' nata così, una serata imprevista e inaspettata, per la quale non ho avuto neppure un dubbio e neppure per un istante. E' nato così,  il racconto delle emozioni di una serata imprevista e inaspettata, da dedicare a una ragazza, che si emoziona ancora nel vedere gli occhi lucidi della madre, al balletto dell'opera.
Ci sono così tante cose, in una serata come questa.  E' difficile raccontare l'oboe di Gershwin (lo confesso: ho dovuto guardare su wikipedia per essere sicuro di scrivere giusto), o le braccia morbidamente muscolose, della viola di seconda e terza fila.  Il tamburo, che viene scosso da uno mingherlino che non te l'aspetteresti,  e che sembra un domatore di leoni, mentre tiene a bada la belva feroce, pronta a travolgerlo.  Oppure, provateci voi, a descrivere gli archi che si muovono, come le onde del mare. O Giuseppe Verdi che ricorda Giuseppe Tornatore.
Un'ora così, passa in fretta. La pausa arriva in un battibaleno.  Io e un bel pò di altra gente, restiamo seduti in poltrona, a goderci quel bel posto, tutto rosso e oro.   Restano anche i signori, nella fila davanti a me.  E parlano tanto, come si dice che facciano i continentali del nord.  La prima signora fa la critica alla Scala (di Milano). L'amica usa il Guglielmo Tell di Rossini, per il giusto ritmo con la ciclette. E l'altra, sostiene  con grande convinzione, che Verdi, alla fin fine, è troppo fracassone.  L'ultima, ci tiene a dire che ha fatto il film di un matrimonio, con la musica di chaikowsky (e anche questo, per sicurezza, l'ho dovuto guardare su wikipedia, perchè di notte, non si è mai sicuri di nulla...).
Poi si ricomincia. E' un'orchestra giovane. Ci sono tutti i giovani amici dei musicisti sul palco,  che fanno i partigiani. E si vede: fanno l'applauso piu' forte  al  loro amico.  Come da maria de filippi.  Ma questa è un'Italia piu' colta.
Arrivano i violini di Guerre Stellari, che sembrano entrarti dentro; piu' potenti perfino, delle onde sonore dei contrabbassi.  Puoi emozionarti con Guerre Stellari, ma di più con i sorrisi di tutti quei ragazzi in piedi, quasi increduli, a ringraziare dell'applauso finale.  Poi, certo, ci sono un sacco di altre belle cose:  la risata della viola di seconda fila, cosi bella circondata dai suoi ricci scuri; la figacciona del violino di terza fila;  il primo violino che pare carlo d'inghilterra;  l'orecchino luccicante del violino della seconda fila.
E finalmente, nel bis, i ragazzi si lanciano. Sono piu' rilassati e finalmente sorridenti.  Alla fine, si gioca. Non si capisce chi ci provi piu' gusto. Se il pubblico a chiedere il terzo bis, o i ragazzi sul palco a concederlo...
E quando il concerto finisce,  si danno appuntamento alla piadineria. Io mi godo l'uscita dei ragazzi musicisti. Allegri, vocianti, con i loro strumenti, di qualunque dimensione, a tracolla sulle loro biciclette (avete mai visto un contrabbasso su due ruote?).

martedì 8 maggio 2012

il racconto ritrovato

Capita a tutti. In questi giorni uso molto il mio notes, ma lo uso piu' per comunicare, che per scrivere. Dipenderà anche dal fatto che non trovo (o non cerco) gli spazi di silenziosa lettura, che mi consentono di poter raccogliere i pensieri. Ogni tanto riesco a fermarmi, per raccogliere qualche piccolo frammento lasciato dentro la valigia da viaggio. Oggi ne ho trovato uno piuttosto breve. L'ho citato ricordando il mio professore di italiano e latino, secondo cui, ero uno straordinario "contafrottole". Ho citato tempo fa,  il mio maestro di italiano e questo ricordo in particolare, dedicandolo a una persona speciale.
"E cosi' ti racconto una storia. Baunei è un paese costruito sul fianco di una vallata, originata da una parte franata di un altopiano. Se attraversi tutto il paese, trovi una strada fatta solo di tornanti. Se la percorri tutta, ti trovi all'improvviso, davanti a quello che chiamano "il golgo".  E' un altopiano incredibile: totalmente piatto e sterminato. Pochi cespugli e i pochi alberi servono a circondare una radura.  Se ti fermi a guardare, ti accorgerai che al centro di quella radura, ci sono rocce aguzze, che sembrano spuntare dalla terra polverosa.  E invece...no.  C'è un vuoto in mezzo a quelle rocce.  Se ti avvicini, piano piano ti accorgi che quel vuoto è molto piu' profondo di quanto ti aspetti. E se guardi, cercando di scorgere il fondo.... non ci riuscirai! E se getti una piccola pietra, non sentirai nulla. E se fissi quel vuoto, sentirai la vertigine. E se leggi una scritta sulla pietra, scoprirai che nel 1972, un ragazzo tedesco, preso dalla vertigine, ha deciso di lasciarsi andare per sempre. E se continui a fissare quel vuoto, ti sembra di capire quel ragazzo. E se ti dicono che non è vero.  Se ti giurano che è stata una semplice disgrazia, tu non ci credere. Ma ascolta quello che dice Sebastiano Incollu di Baunei:  nessuno cade dentro "la voragine" per disgrazia. Neppure la fanciulla che doveva essere sacrificata e per la quale, poco distante, fu costruita la chiesa bianca che domina tutto l'altipiano."
Le storie non sono mai come ci sembrano. Non sono neppure come sono. Ognuno di noi le ricorda come le preferisce. E poco importa se le ricordiamo del tutto diverse da come gli altri le ricordano.

giovedì 22 marzo 2012

il profeta e il filosofo

"Amore e dubbio non si sono mai rivolti la parola"  (Kahlil Gibran)

Non chiedetemi perchè oggi, invece di una storia, ho voluto far leggere queste parole messe in fila. Le ho trovate per un puro caso.  Anche se, non posso certo dimenticare che, una mia amica, dice sempre di ricordare le parole del suo filosofo preferito: Oogway.  "Il caso non esiste".   Io invece, cito spesso un altro filosofo, che mi meraviglia per la sua ruvida saggezza. Anche lui ha pensato al caso, che talvolta sembra governare le nostre vite.  "Il vento gira dove gli pare a lui".  Se non l'avete riconosciuto, procuratevi un'enciclopedia della filosofia e andate alla lettera U.  "U" di Urgu.  Del Caso e delle Coincidenze,  ve ne racconterò un'altra volta.  Se sarà il caso.

sabato 17 marzo 2012

jeans, bretelle & pizze

Guardo i ragazzi che entrano in pizzeria per ordinare. Guardo con attenzione, che spero non venga confusa con altro genere di interesse,  i loro jeans. E mi viene in mente che, da piccolo, non sopportavo molto  l'idea che mia madre mi volesse mettere ''i tiranti''.  Che non erano niente a che vedere con i ponti sullo stretto  o altre opere di ingegneria. Non so perché le chiamassero così.... le bretelle.  Sta di fatto che  l'affettuosa motivazione, che mia madre adduceva, era che ero troppo magro e i miei pantaloni, senza quell'adeguato sostegno, mi sarebbero scesi alle ginocchia, mentre camminavo o giocavo. A quell'età, io ero decisamente meno spudorato di come lo sia adesso, e quindi... accettavo l'aiuto della tecnologia elastica.   Adesso, nell'A.D. 2012,  guardo questi jeans, cosi instabili, cosi' pericolosamente pronti a cadere, seguendo le immutabili leggi della gravità terrestre.  Li guardo, cercando di percepire quell'invisibile punto d'appoggio, quel vero e proprio "punto di non ritorno", oltre il quale potrebbero scendere miseramente, irrimediabilmente, definitivamente, verso le ginocchia dell'occasionale indossatore.   Insomma, voglio dire, che occorre una buona prestanza fisica, per poter tenere i glutei in costante contrattura, al fine di tenere in posizioni cosi' estreme, la cintola del pantalone.  Mentre aspetto 2 pizze patatine e wurstel, riesco persino a immaginare,  che la palestra a fianco di Faby's, organizzi appositi corsi per tonificare i glutei, come si fa per appiattire gli addominali.  E negli ultimi 2 minuti d'attesa, mi ritorna in mente quello che mi ha raccontato la mia amatissima Joyce.  In realtà, la prima volta che i jeans "ribassati", sono apparsi in una sfilata di moda, era in occasione della presentazione di una collezione di CK.  In quell'occasione, come sempre accade, esisteva un argomento a cui il creatore di moda si ispirava.  I jeans portati estremamente in basso sulla vita, erano una provocatoria citazione, di quello che molti, negli Stati Uniti, sanno benissimo.  Nelle carceri statunitensi, esistono, come dappertutto, dei codici di comunicazione non verbale.  Uno di questi,  riguardava la segnalazione ai compagni di detenzione, della propria disponibilità a rapporti di un tipo ben preciso.  Il segnale,  inconfondibile,  era proprio il portare i pantaloni talmente bassi in vita, da fare intravvedere quello che abitualmente si chiama "fondo schiena" e parzialmente anche la parte immediatamente inferiore.  Chissà se tutti quei ragazzi in pizzeria, che ordinavano un panino "poldo", conoscono questa storia.  Chissà se sanno di portare addosso un bel segnale di ....disponibilità.  E chissà cosa avranno pensato di me, mentre uscivo  ridacchiando, con 2 scatole di pizze patatine e wurstel,  in mano.

mercoledì 7 marzo 2012

occhi scuri

La mia amica dell'Ikea, mi ha inviato una foto.  Senza commenti.   In un bianco e nero, che ricorda i fantasmi (e infatti ha solo scritto un titolo: "presenze").   E' la foto di un viale alberato, all'ingresso di un ospedale.   E mi ha ricordato un'altra foto, che ogni tanto guardo, con una tenerezza che mi stringe il cuore.   Non ricordo piu' il racconto che faceva mia madre. Perchè mia nonna, invece, non me lo ha mai voluto raccontare.  Sicuramente, non lo ha mai voluto fare, per lo stesso motivo per cui aveva bruciato i quaderni neri, pieni di appunti e poesie,  legati tra loro con lo spago fino, come fossero rilegati per resistere al tempo. Come dovrebbero resistere i matrimoni.    Non so neppure se, davvero, lui sia stato in quell'ospedale.   Ricordo solo quell'unica sua foto.  Quella di un uomo, seduto su una sedia impagliata, con gli schienali in legno. Come quelle sedie che, un tempo, si portavano da casa, per andare in piazza Santa Maria, e poter ascoltare comodi, i poeti improvvisatori, sul palco della festa di mezzagosto.  Lui è lì, seduto in un cortile d'ospedale.  Con in testa un cappello a bustina, di quelli che mettevano i soldati, quando non andavano in guerra.  Una giubba non troppo pesante.  Pantaloni non troppo leggeri.  Troppo stropicciati, per uno abituato a essere sempre vestito con cura.  E gli scarponi slacciati.  Forse troppo scomodi, per un calzolaio, abituato a cucirli da sè.  E poi le sue mani, poggiate una sull'altra, a cercare riposo sopra le gambe. E infine, il capo, ostinatamente diritto, sulle spalle ormai curve, per evitare il riflesso del sole negli occhi scuri.  O forse per non incrociare, nell'obbiettivo della macchina fotografica, lo sguardo delle persone amate, a cui scrivere, sul retro della carta ferrania, quelle poche, stanche, parole di saluto. Qui mi cureranno bene.
Non so se, davvero, la tua nonna, abbia mai incrociato, nell'ospedale, quell'uomo seduto nel cortile.  Ho immaginato che potesse essere vero.  Ho cercato di vederlo negli occhi scuri, dentro una foto di donna bellissima.  Ho creduto di sentirli, mentre si raccontavano delle loro sofferenze, delle cure, delle ansie. Come nei libri di Milena Agus.  Cercando una mano da stringere, nei momenti di paura.  E allora, ho ripensato alla foto della mia amica dell'Ikea. E ho pensato che quei passi vuoti, nella neve di un viale alberato, fossero di qualcuno che non ho mai conosciuto. Di cui non ricordo la storia.

lunedì 27 febbraio 2012

Milano Centrale - Bologna Centrale

MILANO CENTRALE
Una volta, ho letto che gli "occhiali rosa", che mettiamo in certi periodi della vita, modificano veramente tutto ciò che vediamo intorno a noi, rendendolo diverso, almeno ai nostri occhi. Trovo di un fascino imbarazzante, persino il groviglio di fili, pali, luci e cartelli, che si intrecciano allo sguardo, mentre esco dalla stazione di Milano, e mentre cerco di immaginare cosa fossero, quelle vecchie stazioni con le loro tettoie disegnate e forgiate. E così, nel tempo che impiego a scrivere i miei pensieri ferroviari, alzo lo sguardo nuovamente, per scoprire di essere già alla piccola stazione successiva. Lambrate. Dove niente parla di ciò che era. Solo presente. Solo un momento di passaggio. Nulla che chieda per sé, un briciolo delle mie emozioni. Tutte ferme lì. A Milano. Impigliate nel groviglio di fili, pali, luci e cartelli.

ROGOREDO
Chissà perché, mi sembra che le ragazzine e i ragazzini di Piacenza, mi appaiano meno "belli" di quelli che puoi incontrare a Bologna. Anzi, quando il treno si ferma alla stazione di Rogoredo, ti sembra che le ragazzine e i ragazzini, che salgono in direzione Bologna, siano già più belli, più felici.

LODI
É come se questa terra, volesse fare una promessa. Farmi vedere, in questo anticipo di sole, come potrà essere la primavera, nella pianura piatta. Dove risaltano quelle fattorie. Bellissime. Non puoi dire di avere mai visto una fattoria, se non hai visto brillare quei casali, delineati da una striscia piatta alla base, e dagli alberi alti e spogli nella verticale. Come i disegni a china, che mi facevano fare da ragazzino.

PIACENZA
Mi piace lasciare lo scompartimento, un quarto d'ora prima dell'arrivo. Lascio il suono ovattato della prima classe, per sentire il rumore del vagone, che scorre sui binari. È un suono più adatto al panorama della pianura, che scivola dai finestrini.

"Potresti mancarmi. Senza nessun altro motivo, che non sia la curiosità di scoprire."

mercoledì 15 febbraio 2012

bianca & fine,fine,fine

Il mio primo ricordo della neve, è un cortile imbiancato. E' anche il mio primo pupazzo, bianco e altissimo, come può esserlo per un bambino di 4 anni. Una gigantesca palla di neve, con gli occhi di pietra e un rametto per sorridere. Un cortile tutto bianco, se non per il nero degli abiti di mia nonna. E' strano che tra i ricordi di quella nevicata, non ci sia il ricordo del freddo. Tutte le giornate di neve, dovrebbero essere fredde, anzi freddissime.
Una mia amica, sostiene che la neve sia bellissima da guardare, ma troppo fredda per giocarci. Io non riesco a crederci, perchè da sempre, me l'immagino vestita di nero, rotolare in mezzo al bianco di un giardino d'inverno. Sono sicuro che se ci provasse, non smetterebbe più, fino a ritrovarsi ferma in mezzo agli alberi, distesa, a sorridere. Credo che  gli alberi non smetterebbero di guardare il sorriso da bambina, felicemente perduta nella neve. E magari, qualche fiocco di neve, scenderebbe a baciarla.
Perchè certe nevicate, sono diverse dalle altre. Ci cammini in mezzo, e sei sicuro che quei fiocchi non ti bagneranno. Non resisti a infilare i tuoi scarponi in quella morbida nuvola bianca. Non puoi evitare di dare la forma a una gigantesca palla di neve, con gli occhi di pietra e un rametto per sorridere.
Perchè certe nevicate, sono diverse dalle altre e tu, devi solo evitare di guardare il riflesso nelle vetrine, per non scoprire che ora, sei più alto del tuo primo pupazzo di neve.

giovedì 9 febbraio 2012

alberi e biciclette

Ho deciso che, ogni tanto, cioè quando sarò dell'umore, tirerò fuori le storie, che mi vengono in mente, di quella che fu l'età dell'oro, per un paese che si trova esattamente all'incrocio dei pali. Credo che li chiamerò "Storie di Petrolchimica"
Il primo di questi ricordi, ho deciso di chiamarlo "Alberi e biciclette. Ovvero: di come la bicicletta Graziella di Gianlucio, finì sopra l'albero piu' alto della piazza San Nicolò". Un mistero che nessuno ha mai svelato. Gelosamente custodito dall'esecutore, o esecutori materiali. Perchè non si è mai saputo  neppure se, chi avesse portato a termine quella fulminea operazione, fosse da solo o una vera associazione a delinquere, ....pardon "ad appendere".  Ricordo ancora chiaramente, quella splendida fusoliera rossa fiammante, con i cerchi scintillanti alla luce delle prime lampade a fluorescenza, della piazza di fronte alla chiesa.  Stava lì, beatamente galleggiante, sulle fronde dell'alberello, disposto in mezzo allo svincolo,  nella posizione migliore per poter essere ammirata,  da ogni angolo della piazza.   Chi passava, in quella serata di fine maggio, ma anche chi si era posato distratto sulla panchina, senza farci caso,  impiegava diversi minuti a riprendersi dallo stupore.  Ammaliato da una visione inaspettata.  Incredulo di quella situazione che sembrava sfidare la fisica. Come per le piramidi egizie, per le pietre di Stonehenge, o per i meno universali nuraghi,  nessuno riusciva a trovare una spiegazione ragionevole, sul metodo utilizzato per il posizionamento del trabiccolo, nella parte piu' alta e irraggiungibile dell'albero. Nè tantomeno, a quei tempi, si conosceva alcun esperto lanciatore di biciclette, che fosse dotato di tale millimetrica precisione. L'unico virtualmente capace di tali lanci, era Donatello. Ma lui lanciava pietre. Una bicicletta non sarebbe stata alla sua portata.  Senza contare,  oltre alla rapidità di esecuzione  e all'assenza di testimoni, anche l'audacia della sfida a un ribollente proprietario, certo di avere individuato il responsabile con precisione, pur se con una approssimazione di circa cento nomi di indiziati.  Credo che, se per caso, quella sera, qualcuno avesse visto turisti americani passare, per andare verso Fonni, oggi avremmo una leggenda metropolitana in più.  Nessuno avrebbe resistito a dire che, forse, probabilmente, anzi, sicuramente, Steven Spielberg,  nell'immaginare la scena di E.T. che passa  davanti alla luna volando su una bici, aveva visto la graziella rossa, appesa a un albero, nella piazza di un paese vicino alle ciminiere.  Ma solo se fosse passato quella sera di fine maggio.  La mattina dopo, infatti, così com'era apparsa, la bici rossa, non c'era già più.  E il barista, che stava di fronte, nella piazza, continuò a giurare che nessuna scala si fosse avvicinata. Nè prima, nè dopo. Nè mai più.

mercoledì 25 gennaio 2012

i conti di erre

Oggi facevo un po' di conti. Sono quel genere di conti che "non ti tornano mai". Forse perchè preferiamo non vedere il risultato dell'operazione. E forse perchè, a differenza della matematica tradizionale, in questi conti, non sai mai che tipo di operazione stai facendo. Conosci i numeri che usi, ma non sai se stai sommando, sottraendo, dividendo o moltiplicando. Niente di niente. Devi fare come nei quiz televisivi, quando non sai la risposta: ti butti.  Ti devi buttare.   Ti dovresti buttare.
E mi viene in mente l'Ikea.   Io non sono mai stato dentro un negozio dell'Ikea. Mia cognata me ne parla sempre. Ogni tanto avanza anche un embrione di proposta indecente: "perchè non ci organizziamo e andiamo tutti all'Ikea?" Lo fa, come la mia vecchia zia, che ogni tanto, propone un viaggio assieme, per andare a trovare i cugini emigrati in germania dal 1965, che non vede dal ferragosto del 1979.
"Ma davvero, per andare a vedere un centro commerciale, saresti capace di caricare figli e masserizie in macchina? Arrivare al porto di Olbia, farti la nottata in cuccetta con il rumore dei motori, che ti fa sognare di essere in fuga, sul treno a vapore inseguito dai banditi?"
Mi dispiace. Avrò sicuramente qualche altra occasione, per acquistare i cuscini per divano a 99 centesimi.
L'ikea mi è venuta in mente, pensando a cosa accadrebbe, se ci fosse un mobiletto da montare e non avessi uno di quei foglietti che, per quanto incomprensibili, mi danno un'idea di "cosa" sto cercando di montare (sul "come", ho rinunciato già da tempo:  da quando ero studente universitario e per completare un armadio a due ante, ho impiegato tre stagioni della mia gioventù).
Ecco.  I "conti che non tornano", sono più o meno così.
E così, come dicevo all'inizio, preferisci non finire il conto, perchè hai paura che il risultato non sia quello che vorresti.  Quello che, pure se non l'hai espresso, non sia quello che desideri.  E ti prendi un vantaggio, anche sul Destino: neppure lui saprà mai se ti abbia fatto lo sgambetto, o un regalo bellissimo e inaspettato.
Insomma, oggi non andrò all'ikea. Preferirei andare da un'altra parte, ma alla fine, so che starò qui. Fermo, immobile, a sbagliare tutto, per conto mio.
Ah! Se vi interessa, l'ultima volta, che ho visto uno di questi conti,  ho scoperto che non trovavo il risultato di 165x55=9075.

lunedì 23 gennaio 2012

angeli d'inverno


C'è un angelo.   Che sta sempre con me.
Ogni tanto ne vedo l'ombra.
Mentre passeggio per un viale freddo e nebbioso,
sotto le luci gialle.
Ma lui è peggio di me, anzi, è come me.
Si nasconde agli occhi di chi vuole bene.
Fugge invisibile, dallo sguardo
che lo vorrebbe stringere a sè.
Sa che lo immagino diverso.
Ma non sa che lo ritrovo in un viso
d'angelo, disegnato in un foglio d'ottobre.

("Delirava stento" "Qua specchiava"  di Ada Negri)

lunedì 16 gennaio 2012

cartelli

Credo che, se le ferrovie volessero iniziare a risparmiare davvero, secondo me ,dovrebbero spostare alcune tratte ferroviarie. I treni non dovrebbero più passare in certe stazioni.  Ad esempio, basterebbe non passare a Casalpusterlengo, e già si potrebbe risparmiare sui tre cartelli che in ogni stazione, ci fanno sapere dove ci troviamo. L'altro giorno, mentre il treno si fermava e io iniziavo appena a leggere il nome della stazione, il convoglio era già ripartito. Di norma, i cartelli (quelli rettangolari, azzurri, con la scritta bianca) sono larghi circa un paio di metri. Quello di Casalpusterlengo, sembrava lungo come la salsiccia fatta a buddusò per partecipare al guinnes dei primati. Insomma, un consumo inaudito di alluminio. E non si può neppure pensare di abbreviarlo. Non è come scrivere S.Teresa Gallura, anzichè S-a-n-t--a T-e-r-e-s-a di G-a-l-l-u-r-a.  Mica si può scrivere "Casal P.", oppure "C.Puster.", "C.P.Lengo" o ancora "Casal.go", come si fa nelle lettere, dove Illustrissimo, diventa un improbabile Ill.mo (che cosa ci si risparmi, poi, fatemelo sapere).  Tantomeno, si può fare come in alcuni paesi dalle parti di Sebastiano Satta, dove le abbreviazioni dei nomi delle località, sono piuttosto decise. "OSSANA" diventa "O**AN*",  "OROPELLI" diventa "OR*PE**I",  "SINISCOPA" diventa "S**IS**P*", e così via.  Dov'è il risparmio, mi chiederete?  Non sulla lunghezza del cartello, certamente.   Ma pensate a quanto alluminio in meno c'è nei cartelli, con tutti quei   (asterisco)buchi......

giovedì 12 gennaio 2012

giustizia divina

Ci sono giornate in cui non mi voglio troppo annoiare. Se poi devo parlare di argomenti potenzialmente noiosi, la cosa diventa improponibile, per il mio carattere. Allora, sfodero il mio repertorio di "storie" (se andate a cercare nelle note precedenti, troverete un'altra citazione). Talvolta sono storie vere che sembrano inventate, altre volte sono storie  talmente inventate, che somigliano perfettamente a quelle che ognuno di noi ha vissuto.  Sono delle pause leggere, che mi consentono di non dormire in piedi e di non fare russare troppo fragorosamente, gli uditori.  Certi argomenti, in effetti, non sono il massimo. Provate a pensare, se vi capita un argomento come "ergonomia e movimentazione manuale dei carichi, nell'eziologia della lombosciatalgia". Praticamente siete morti. Peggio della pozione di Frate Lorenzo, che fece adddormentare Giulietta. Così, quando mi è capitato, ho tirato fuori una delle figure che più mi ricordano l'adolescenza paesana. Tutti ricordano ancora i bar delle piazze di paese. Quelli con le sedie di metallo cromato e braccioli e sedute intrecciati con un tubicino di plastica sottile, di colori fluorescenti. E tutti ricordano l'occupante abituale di quelle sedie. Il belloccio del paese. Capello fluente. Fisico prestante. Abile calciatore. Capo cannoniere del torneo bar. Percentuale di occupazione della suddetta sedia e del suddetto bar, di entità inversamente proporzionale alla sua presenza, presso il locale sportello dell'ufficio di collocamento. Per non parlare della postura inconfondibile. Seduto di sghembo, in modo da poter mollemente posare il retro del ginocchio, su uno dei braccioli, facendo così penzolare l'anca all'esterno del lato della sedia. E come non ricordare, al passaggio dell'amico, del conoscente, o del semplice paesano, l'altrettanto molle alzata di braccio, controlaterale alla gamba, per un benevolo e affettuoso saluto.  Un cenno, quasi misericordioso, per chi, della vita, vedeva solo le fatiche e le quotidiane sofferenze. Un vero filosofo, del vero otium originario. E poi... c'era lei. La bella, alta, candida, profumata, misteriosa, affascinante, ricca, benestante, figlia unica. Il miglior partito del paese. Nei desideri, confessati o meno, di ogni giovanotto del paese. Lei passava gli anni dell'adolescenza e dei primi rossori della gioventù, a catalogare, selezionare, scegliere. Le amiche. Il primo amorino delle scuole medie. Il primo tentativo di legame impegnato. Poi, come sempre, dalle mie parti, arrivava il carnevale. E con la quaresima iniziavano le voci sommesse. E quelle voci diventavano suono di campane pasquali, nell'annunciare il fidanzamento dell'anno (si, proprio quello di cui tutti possono parlare). Lui. Si, proprio lui. Dino. Gino. Lino. Tino. Pino. Mai che avessero nomi lunghi da imbranato. E noi imbranati, a chiederci perchè non ci sia una giustizia divina, che impedisce queste ingiustizie cosmiche, che danno tutto a chi ha già tutto.  Fidanzamento in piena regola. Matrimonio in piena regola. A denti stretti, forse. Con lussuosa dote, comprendente corredi multipli, tegami delle zie, magione del nonno, mobilio dei bisnonni. E naturalmente, cerimonia sfarzosa, rigorosamente a spese della sposa. Ora,  vi chiederete, cosa mai possa c'entrare tutto questo con il titolo della premessa?   Ecco...vedete?  Arrivato e passato il giorno del matrimonio. Arrivata e passata la prima notte di nozze. Arriva il mattino del primo giorno di vita coniugale. Ed è in quel preciso momento che la mite, quasi arrendevole sposina, mostra il suo vero, dolcissimo carattere. "Tesoro. Questo comò della mia bisnonna....io credo che starebbe d'incanto, se fosse messo sulla parete di fronte alla finestra, e non sotto". "Vedi? Basterebbe spostarlo sull'altra parete". Così il nostro ex-scapolo-d'oro, non può tirarsi indietro, di fronte alla prima richiesta di dimostrazione di mascolinità, che lo renderà degno capo-famiglia. E così inizia l'opera di spostamento. Ed è in quel preciso istante, che accade l'inaspettato. Vorrei che poteste vedere le facce dei miei uditori, quando, a questo punto del racconto, attendo qualche istante in silenzio, e poi pronuncio  la mia frase ad effetto. "...Perchè  c'è una Giustizia Divina. Che si manifesta sotto forma di lombalgia acuta da sforzo. Quella che si chiama da tempi lontani, colpo della strega". Mi piacerebbe davvero farvi vedere le loro facce soddisfatte, per un mal di schiena che li ricompensa, come una piccola rivincita.

martedì 3 gennaio 2012

adelina e guendalina (l'origine)

In realtà, quando ho deciso di scrivere queste righe, da mettere nel blog, avevo l'idea di chiamare il tutto, proprio con questo titolo: "adelina e guendalina". Come ho scritto il 15 novembre, volevo iniziare proprio da questa prima teoria. E questa teoria inizia a Stintino.
Se, come capita a me in questo periodo, vi trovate a lavorare e vivere, in un posto fuori dalla Sardegna, il primo argomento di cultura e società, che vi toccherà affrontare, riguarderà quasi certamente, le meraviglie turistiche dell'isola. Purtroppo, avrete da subito un ruolo ingrato. Disintegrare la granitica certezza di alcuni, circa le dimensioni dell'isola di Sardegna, discretamente superiori a quelle di un  tipico atollo tropicale. Poi dovrete affrontare le facce stupite (perchè non ho idea di come sia un'espressione...basita) di chi vi sente bestemmiare: "io non so nuotare". Riuscirete a estorcere una mite condanna, con pietà collaterale, solo se avrete il coraggio e l'ardimento di precisare che siete nati in un posto equidistante da qualunque specchio acqueo marino.   In effetti io sono nato in un posto talmente lontano dalle spiagge, che per avere il mal di mare, non serviva andare in traghetto, ma bastava il viaggio in auto per raggiungere il porto d'imbarco.  Se tutto procede come previsto, in capo a una mezzora, vi troverete a spiegare che Stintino è un borgo caratteristico. Che la spiaggia della Pelosa è indubbiamente bellissima, e soprattutto che, tolta l'erosione dell'arenile, tolta la concessione demaniale zeppa di ombrelloni e sdraio, tolta la valanga umana che la occupa dalle 7 alle 7, conviene cambiare spiaggia. Anzi, bisogna decisamente cambiare orizzonte. Se avete un amico indipendentista, della Repubblica di Malu Entu, vi consiglierà, quasi sicuramente, la spiaggia di Mandriola, fronte edicola e bar (all-inclusive), dove l'acqua non ha nulla da invidiare alla cugina blasonata del capo di sopra.  Per gli altri, meno irriducibili, basterà fermarsi un pò prima del paese di Stintino, girando al piccolo bivio che porta  l'indicazione di "Pazzona".
Ecco. Ci sono arrivato. E' proprio dalla spiaggia di Pazzona, a Stintino, che parte la storia della teoria di Adelina e Guendalina, anche se in realtà ha origini più lontane.
In effetti la spiaggia di Pazzona, ha consentito quella che, tecnicamente, si potrebbe chiamare, la conferma sperimentale, dopo una prima fase di teorizzazione, e un successivo primo esperimento nelle spiagge di Scivu e di Putzu Idu.
Quando deciderete anche voi, che è arrivato il momento di dedicarvi alle scienze sociali, anzichè perdere tempo con la Nintendo-wii, provate a mettervi comodi e seguire, ad esempio in una spiaggia di  ombrelloni, le famigliole in arrivo. Prendete la mira, e individuate le mamme che operano sullo scenario di guerra di un normale arenile estivo. Poi, iniziate l'esperimento. Fateci caso. Ammirate la leggera soavità delle mamme che hanno solo figlie femmine (almeno 2), la loro grazia, il loro sguardo luminoso, dolce, premuroso, pieno di una gioia di vivere e di orgoglio, che non hanno pari. Sono mamme che quando devono richiamare la loro prole (femminile), usano solo vezzeggiativi, un tono di voce carezzevole, suadente: "... Adelinah...! .... Guendalinah...! ... suvviah... venite a bere qualcosah?" (la "h" finale, serve a darvi l'idea, impossibile per iscritto, dell'anelito amoroso che trasmettono nel richiamare le piccole).  A questo punto, vi occorre procedere alla seconda fase dell'esperimento. Individuate le mamme che hanno solo figli maschi (almeno 2). E' difficile descrivere quello che potrete vedere e sentire. Sono mamme provate da un'esperienza che tempra il carattere, che produce una sorta di mutazione genetica, senza interessare il dna. Ho pensato a lungo a come rendere per iscritto quello che a voce è più facile, ma se avete visto  qualche volta dei film, tipo "Platoon" o "Full metal jakets" capirete se vi dico che esse non sono più vere mamme, ma la trasformazione in sergenti dei marines. "U-g-o-o!!!!!....M-a-s-s-i-m-i-l-i-a-n-o-o-o!!!!!" - "fuori dall'acqua!! o vengo io a tirarvi fuori usando le vostre orecchieeeeeee!!!".     Forse non sarete d'accordo.  Devo ammettere che solo una volta ho avuto un dubbio, circa questa mia classificazione. E' stato nella spiaggia di Tancau, dove una mamma, stremata dalla mancanza di disciplina della figlioletta, dovette fare uso dell'ultima risorsa, dell'arma finale.   "Federica!!!  Se non la smetti, ti lego all'ombrellone con la tua treccia e non ti sciolgo fino al tramonto!". Ma era figlia unica.